Quando il dolore aiuta. Come riprendere la rotta della vita grazie anche alla sofferenza
"La crepa" di Massimo Scialpi, psicoterapeuta, rivaluta le cosiddette nevrosi, che sono in realtà una risposta a fattori di crisi e che attivano delle difese contro stimoli e situazioni negative.
“Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Corinzi, 12, 10). Questo è uno dei passi paolini che hanno influenzato tanta letteratura a venire, anche e soprattutto oggi. In Giappone, dove anche gli oggetti sono visti come portatori di messaggi divini o delle persone che se ne sono servite in passato, si usa ancora oggi riparare le cose rotte con materiali preziosi, perché sono testimoni del dolore della frammentazione e invitano a farne tesoro per risollevarsi. La crisi, la discontinuità, la catastrofe, secondo la celebre teoria di Renè Thom, non sono solo fallimenti senza speranza. Anzi, racchiudono proprio quella speranza: l’atto di superare quei momenti, come quando si scala una montagna difficile, ci porta a diventare se non migliori, più consapevoli. Proprio in questi giorni sta uscendo un libro che racchiude nelle sue pagine quella possibilità di aiuto: lo ha scritto Massimo Scialpi, psicoterapeuta, autore di diversi libri sull’aiuto al singolo e al gruppo e sulla interazione umana tra paziente e analista. Già dal titolo, “La crepa” (edizioni Fuorilinea) si intravede una strada nuova: la rivalutazione delle cosiddette nevrosi, che sono in realtà una risposta a fattori di crisi e che attivano delle difese contro stimoli e situazioni negative che altrimenti danneggerebbero non solo la psiche, ma anche la nostra salute fisica. Un libro di cui torneremo a parlare tra breve. Intanto però facciamo quattro chiacchiere con il suo autore.
Secondo alcuni suoi colleghi la nostra società del benessere e del consumo ci sta nascondendo il dolore e la sofferenza.
Potremmo leggere la nostra storia attraverso quello che molti autori contemporanei chiamano la fatica di vivere. Tutta l’evoluzione è intrisa di lotte per la sopravvivenza, difficoltà legate al soddisfacimento dei cosiddetti bisogni primari. Gli esseri umani, pur inseguendo uno stato di felicità permanente, si sono scontrati con una realtà che ha sempre ostacolato questo desiderio. Abbiamo sempre cercato di esorcizzare il dolore, di renderlo inoffensivo, ma il dolore esiste. E bisogna farci i conti, prima o poi. La società del benessere ci ha illuso di poter risolvere tutto non pensando, o pensando ad altro per distrarsi; ma distrarsi da cosa? Evitare sempre e comunque di fermarsi un attimo per riflettere sulla propria vita e le proprie pieghe? Ma non è forse questo che ci ha permesso nei secoli di diventare più sensibili e attenti alle cose della vita? La crisi psicofisica, sociale e anche culturale è, parafrasando Einstein, ciò che veramente ci mette in discussione e può farci prendere consapevolezza di parti di sé che abbiamo trascurato, presi dall’alienante tentativo di evitare di aver davvero cura di noi.
Lei è autore di un libro sulla sofferenza che in qualche modo rimette in gioco la negatività del dolore.
Mi occupo di sofferenza da quasi quarant’anni. Quando si acquisisce familiarità con i vari volti del dolore, non si può non entrare in empatia con coloro i quali sono portatori sani di un qualcosa che riguarda ciascuno di noi; ci si rivede, ci si rispecchia, si entra in contatto profondo con la Persona che in quel momento sta portando ed esprimendo il suo carico di confusione e di smarrimento, attraverso i suoi silenzi, le sue lacrime, la sua rabbia, e, alla fine emerge la sua richiesta di aiuto. La vita è un viaggio a tappe, ogni momento è utile per comprendere chi siamo e soprattutto dove vogliamo andare, e nel momento del dolore bisogna mantenere la rotta pur avendo perso momentaneamente la meta.
Corpo e psiche sono davvero così legati?
Corpo e psiche non sono stati mai slegati. Gli psicoterapeuti parlano del processo di somatizzazione di un sintomo affermando che si tratta di “lacrime non piante”, ovvero di un blocco delle emozioni e di una incapacità di sentirsi insieme agli altri, come se non si fosse più capaci di provare affetti. A questo livello, ci sono anche altre componenti che determinano la nostra salute; parlo delle relazioni umane, che spesso vengono sottovalutate nella “cartella anamnestica” della persona che soffre, come fossero un’ appendice sociale di cui poter fare a meno. Niente di più sbagliato. Oggi possiamo ben dire che le relazioni sono fondamentali quanto la salute fisica ed emotiva.