Davide Garufi. Sgomento di fronte a una vicenda che lascia intravedere un abisso di dolore
Una vita tormentata? Sicuramente non facile, con il problema della transizione di genere che aveva portato Davide a una cura ormonale e alla decisione di chiamarsi Alexandra

Sgomento. È forse la prima reazione che si può provare di fronte alla tragedia di Davide Garufi, suicida a 21 anni. Un giovane, una persona che, stando agli stereotipi dell’età – 21 anni, età dell’oro, vita che sboccia –, avrebbe dovuto avere un futuro davanti, sogni, desideri di bellezza, realizzazione e… chissà. Invece in uno dei suoi post su TikTok, il social che frequentava, sul quale si presentava e che addirittura in questi giorni lo definisce il “tiktoker 21enne” – così si legge un po’ ovunque e magari varrebbe la pena di farci un pensiero – Davide scriveva: “Io c’ho il dolore dentro, me lo sono sempre tenuto dentro”.
Una vita tormentata? Sicuramente non facile, con il problema della transizione di genere che aveva portato Davide a una cura ormonale e alla decisione di chiamarsi Alexandra.
Si può immaginare quel “dolore dentro”, magari l’ansia di essere accettati, lo scontro quotidiano tra realtà e aspirazioni. E quanto deve aver pesato tutto questo nella decisione di togliersi la vita (tra l’altro dopo aver già fatto, in precedenza, un tentativo fallito).
Sgomento, perché la vicenda lascia intravedere
un abisso di dolore
– e di impotenza: come entrare nel mistero di una coscienza, nell’intimo di una persona, come farsi vicini? – di fronte al quale si resta senza parole.
Il silenzio lascia poi lo spazio a qualche riflessione. La prima sul peso insostenibile del giudizio degli altri, in questo caso manifestato dai social, con gli hater dei quali sarebbe stato vittima Davide/Alexandra, secondo le testimonianze dei conoscenti. Reazioni violente, insulti, non difficili da immaginare, ai suoi post proprio su TikTok. Cyberbullismo, verrebbe da dire. Un fenomeno tanto ben conosciuto quanto pericoloso. E non è un caso che si parli di “istigazione al suicidio”. Non è nemmeno la prima volta.
Una seconda riflessione va al tema della fragilità. Questi nostri ragazzi, giovani, i nostri figli, quante volte non ce la fanno a stare al passo, quante volte manifestano fragilità inattese e forse insospettabili. Si può puntare il dito sulla società, sulla famiglia, su quel che si vuole, ma il risultato non cambia: si ha l’impressione purtroppo che in molti casi l’esistenza appare ai più giovani come una trappola, senza via d’uscita. Le cronache lo ricordano spesso.
E allora che fare? Difficile trovare una ricetta pronta, piuttosto c’è bisogno di un esercizio faticoso e paziente che comincia dagli adulti. Un esercizio che alleni alla capacità di educare, di accompagnare e nello stesso tempo di lasciar andare.
I più piccoli hanno bisogno di questo: di qualcuno che tenga loro la mano trasmettendo senso di sicurezza, ma che sia pronto anche a mollare la presa, fiducioso che i passi dei loro figli saranno comunque passi buoni perché conquistati, sperimentati, anche faticosi, ma diretti alla soddisfazione.
Certo, una mano attenta non si allontana, è pronta a tornare in aiuto quando serve e talvolta anche a riconoscere di non poter più afferrare la mano dell’altro. Perché questo fa parte del mistero della vita. E allora la presa lascia il posto alla carezza, piena di compassione, che non è sterile commiserazione, ma sguardo amoroso anche se spesso sembra impotente.
Davide/Alexandra, ti vogliamo accompagnare con questo sguardo, lontani dall’odio e dagli odiatori social che speriamo comprendano, in qualunque situazione, il male che possono provocare, grati per la tua vita, più forte del gesto finale e della morte.