Brexit e gli “altri” populismi: così le democrazie stanno cambiando pelle
Boris Johnson nel Regno Unito. Donald Trump negli Usa. Ma i leader cosiddetti "populisti" (che spesso si accompagnano a visioni sovraniste) hanno successo a ogni latitudine: dall'Italia all'Ungheria, dalla Russia alla Germania, passando per il Brasile. Quali domande pongono alle tradizionali istituzioni "democratiche"? E i cittadini, hanno definitivamente rinunciato al protagonismo politico?
Westminster riapre i battenti “senza indugi”. Lo annuncia John Bercow, speaker della House of Commons, che ha fatto un balzo sulla sedia dinanzi al pronunciamento della Suprema Corte britannica contro la chiusura forzata del parlamento decisa da Boris Johnson per lasciare mano libera al suo governo sul Brexit (recesso dall’Ue, con o senza accordo, entro il 31 ottobre). Così il pirotecnico Bercow (reso famoso dal suo spumeggiante “order!” non meno che dalle fantasiose cravatte) ha annunciato che i parlamentari sarebbero stati presto convocati. Perché sul Brexit “non c’è tempo da perdere”.
Il braccio di ferro che coinvolge premier, Camera dei Comuni e alta magistratura, conferma la crisi epocale della democrazia inglese scossa da vari fattori ma soprattutto dal populismo che sull’isola ha preso la deriva del Brexit, dell’uscita del Paese dall’Unione europea sulla scia di vaghe promesse consolidate nello slogan “da soli si sta meglio”.
Un fallimento della politica tout court, che anziché guidare un Paese con l’obiettivo di servire al meglio i cittadini, rispondendo ai loro bisogni e interessi più profondi, preferisce cavalcare il malcontento (in questo caso contro tutta l’Europa, alimentato da disinformazione e fake news) per raggranellare voti. Il populismo non vuole migliorare le nazioni; il populismo ha un solo obiettivo: raccogliere consenso. Fine a se stesso. Un consenso che neppure sa trasformarsi nel potere di cambiare – possibilmente in meglio – un Paese.
Ne sanno qualcosa, nel Regno Unito, David Cameron e Theresa May, prima dello stesso Johnson. Ma di esempi è costellata la carta geografica mondiale: si pensi alle difficoltà politiche in cui versano, in queste stesse ore, Austria, Spagna, Grecia. Ma non paiono esenti dalla “malattia” neppure Germania, Francia, Polonia, Ungheria… E l’Italia non è fuori dalla partita!
Il populismo, che in genere si accoppia al sovranismo, non è peraltro un marchio “doc” solamente europeo.
Basti pensare allo statunitense Trump o al brasiliano Bolsonaro. Casi in parte diversi – dove la democrazia “formale” appare ormai piegata al padrone di turno – sono quelli del russo Putin e del turco Erdogan. Discorso a sé meriterebbero ovviamente tutti quei Paesi in cui la democrazia non è mai arrivata, oppure è abortita, o di fatto negata. L’elenco è lungo: Cina, Arabia, Iran, parecchi Stati africani…
Restando al populismo – latamente inteso –, esso suscita una pluralità di riflessioni per “guardare avanti”, immaginando come potrebbe essere la politica di domani, in un mondo sempre più complesso e interconnesso, che richiede una politica con lo sguardo alto sul mondo e in grado di guidare i cambiamenti, anziché sfoderare l’angusta ricetta della chiusura entro confini sempre più labili e virtuali.
Anzitutto, comunque li si giudichi, i leader liberamente eletti da un popolo devono essere rispettati nelle loro prerogative proprio in quanto espressione del “popolo sovrano” e dei meccanismi democratici.
Attraverso elezioni dirette o mediante meccanismi parlamentari sanciti dalle rispettive Costituzioni, Johnson e vari emuli hanno il diritto e il dovere di governare il loro Paese. Purché – e questo è il secondo punto imprescindibile – gli stessi leader rimangano nell’alveo delle regole istituzionali. Abbassare la saracinesca di Westminster è stato giudicato dalla Suprema Corte di Londra un’azione “illegale” e per questo “nulla e priva di effetti”, ovvero una forzatura antidemocratica. Pertanto da rimuovere.
C’è un terzo elemento da valutare, che esula dal “gioco istituzionale”. Quanto spazio rimane, oggi, alla partecipazione informata, diretta e responsabile dei cittadini rispetto alla vicenda politica del proprio Paese? (e, si potrebbe aggiungere: della propria città o regione…) Ovvero, se diventa prassi la delega assoluta ad altri – senza controlli a valle e a monte – delle responsabilità circa la vita pubblica, fino a che punto le democrazie resteranno davvero “governo del popolo”?
Quanta ulteriore fortuna avranno in futuro capipopolo, imbonitori, “lider maximi”, pifferai magici, maghi del web e ogni sorta di parvenu della politica, assurti – dall’oggi al domani – ai delicatissimi ruoli di capi di Stato o di governo?
Quarto punto, ancora sotto forma di interrogativo: sopravvivono oggi, ad ogni latitudine (si parli di Europa, di America Latina, piuttosto che di Giappone, Stati Uniti, Nigeria o Iraq) i criteri etici e culturali, prima che politici, delle democrazie che abbiamo finora conosciuto, e non per forza “occidentali”? Quei valori che ritroviamo ad esempio nel pensiero dei filosofi ateniesi, in quello degli illuministi, nelle esperienze risorgimentali, nelle resistenze contro schiavitù e oppressioni di varia marca, contro nazifascismo e comunismo, nelle lotte ai regimi totalitari, coloniali o contro l’apartheid, nei “padri fondatori” dell’Europa? Sopravvivono quei principi democratici – pur nelle democrazie che stanno oggettivamente cambiando pelle – progressivamente maturati e che hanno caratterizzato i secoli recenti?
E non da ultimo – quinto elemento – ci può domandare, a proposito di democrazia, quali siano, in definitiva i nuovi criteri di una scelta elettorale?
Quanto pesano social network e fake news sul voto che ogni cittadino è periodicamente chiamato ad esprimere? Quanto conta la volontà di ogni donna e di ogni uomo di far sentire la propria voce nell’agone politico, così che quella parte del nostro futuro che dipende dalla politica non sia irresponsabilmente appaltato ad altri?
Temi, questi, che forse trascendono il Brexit, ma che – anche grazie a Brexit e populismi vari – non dovrebbero più essere elusi.