Per annunciare il Signore Isaia va oltre se stesso
Isaia sperimenta la fragilità delle sue parole, ma confida nella parola di Dio
Un paio di settimane fa stavo preparando la predica; era un venerdì mattina, finalmente senza nebbia. Ho scoperto che la mattina presto è il momento migliore se vuoi avere un po’ di silenzio intorno a te, e così quando ho cominciato a leggere le letture era ancora buio.
C’era il profeta Isaia a farmi compagnia, con quel passo famoso: «Consolate, consolate il mio popolo; parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta…». Poi continua così: «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: “Ecco il vostro Dio! Come un pastore fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”».
È proprio un poeta, Isaia: riesci a immaginare quello che scrive. Come quando inventa quella preghiera così accorata: «Tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani». O come quando dipinge per noi un paesaggio notturno, una valle angusta tra i monti o forse un deserto senza confini, e in mezzo un gruppo di profughi che vaga senza riuscire a orientarsi, alla ricerca di una casa che non ha più. E poi, all’improvviso, la speranza: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse».
Isaia ha una poesia piena di speranza; è l’uomo di Dio che sa vedere oltre, oltre il male che oggi ci affligge, oltre i problemi che non riusciamo a risolvere. È così vicino a Dio che conosce il suo pensiero, che vede con più chiarezza il suo progetto di vita; sa che ci sarà la pace; sa che verranno giorni in cui «il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà...». Isaia è un profeta che vede lontano.
Eppure c’è un passaggio nei suoi oracoli che ci fa leggere questa sua visione positiva sul mondo non come l’ingenuità di un bambino, ma come la serenità di un adulto, conquistata a fatica. È proprio nella lettura da cui abbiamo cominciato, quella in cui si dice: «Consolate, consolate il mio popolo»; ci sono alcuni versetti che di solito non leggiamo nella liturgia: «Una voce dice: “Grida”, e io rispondo: “Che cosa dovrò gridare?”. Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba». In un momento di fatica, Isaia dice al Signore: perché annunciare ancora la gioia, perché portare la consolazione? Il popolo non cambia, l’effetto delle mie parole non dura. Oggi mi dicono «che bello», e domani già non se ne ricordano più.
«Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre». È così che finisce la frase: mostrandoci un profeta che sperimenta la fragilità delle sue parole (non sempre portano il frutto sperato!), ma confida nella parola del Signore. Per questo continua ad annunciare. «Noi infatti – direbbe San Paolo – non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore».
Mentre facevo questi pensieri, il cielo iniziava a schiarire. Sono andato alla finestra, ho visto i camini fumanti delle case dei vicini. Ho pensato a quanto questo nostro mondo ha bisogno di santi come Isaia, capaci di andare oltre se stessi e annunciare il Signore, la sua parola che salva.