50 anni fa lo sbarco sulla luna. Passo dopo passo, senza avere fretta
Lo sguardo dei cristiani va oltre i limiti umani: si chiama risurrezione
Il 20 luglio 2019 sarà un giorno molto particolare. Si ricorderà infatti il cinquantesimo anniversario dell’allunaggio dell’Apollo 11: in quella data del 1969 il modulo lunare Eagle toccò il suolo del nostro satellite e Armstrong scese la scaletta poggiando il piede sulla superficie argentea, pronunciando la sua famosissima frase: «Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità».
All’epoca sembrava che la corsa allo spazio, che aveva visto trionfare gli americani dopo la “vittoria” dei russi con lo Sputnik e con Gagarin, avesse aperto a traguardi infiniti e sempre più audaci. Dopo aver raggiunto la Luna, si pensava che in poco tempo tutto potesse diventare possibile. Solo l’anno prima, Kubrick aveva ambientato la sua Odissea nel 2001: non solo basi lunari e missioni interplanetarie, ma stazioni spaziali avanzatissime e astronavi guidate da potenti computer fanno letteralmente sognare un futuro tecnologicamente avanzato e non così lontano.
La storia ha ampiamente smentito queste previsioni. L’uomo sulla Luna non ci è più tornato, e le missioni spaziali con equipaggi umani si sono fermate all’orbita bassa, a circa tre-quattrocento chilometri dalla superficie terrestre. Gli sforzi comuni dei paesi che oggi, a differenza di allora, collaborano insieme, sono concentrati sulla Stazione spaziale internazionale (ISS). Gli equipaggi partono da Baikonur, in Kazakistan; astronauti europei e americani si addestrano insieme ai cosmonauti russi; a portare in orbita gli equipaggi è il Soyuz russo, come russo è il modulo di comando della ISS. Cinquant’anni dopo il primo passo sulla Luna non abbiamo bruciato alcuna tappa dell’esplorazione spaziale, piuttosto abbiamo imparato a collaborare insieme, ad avere più attenzione per la sicurezza, a mettere in comune risorse e competenze.
Nel tempo pasquale appena concluso la liturgia ci ha aiutati a contemplare la chiesa delle origini: anche i primi cristiani erano convinti che il Signore risorto sarebbe tornato presto per instaurare il suo regno di pace su tutta la terra, e si impegnavano a vivere dentro a questo clima di attesa imminente. A distanza di duemila anni possiamo dire che quel regno è ancora ben lontano. I cristiani oggi sono chiamati a vivere la propria fede in modo maturo e responsabile, capaci di dialogare con il mondo, mettendo in comune le proprie risorse, soprattutto spirituali, per far crescere una sensibilità nuova che abbia al centro l’umanità, nel suo senso più alto.
Ciò non significa smettere di sognare in grande: a quanto pare l’uomo entro il 2024 tornerà a poggiare il proprio piede sulla Luna, come gradino indispensabile per volare verso Marte, e chissà tra cinquant’anni dove saremo arrivati, o quale altro rallentamento ci chiederà la pazienza di imparare qualcosa di più. La capacità di lanciare il proprio sguardo al di là dei limiti attuali si chiama speranza. Così i cristiani hanno sul presente uno sguardo che va oltre i limiti umani: si chiama risurrezione.
La storia personale di ciascuno chiede passi che a volte rallentano, fermano o addirittura fanno tornare indietro, ma questo orizzonte nel quale siamo immersi fin dal nostro battesimo ci dice che nulla è invano, nulla va perduto. C’è sempre una nuova missione che ci aspetta. E proprio il 20 luglio 2019, da Baikonur, Luca Parmitano partirà alla volta della ISS in veste di comandante, primo italiano nella storia a ricoprire questo ruolo. Allora quale sarà la nostra particolare missione, per compiere un passo ben più grande di un’impronta sulla polvere?