Far fiorire il deserto… Ciad: unire le forze contro l’aridità

Buone pratiche per sconfiggere la fame, ammansire il terreno secco, contrastare la desertificazione, far fruttare il suolo. Sono quelle che da decenni padre Franco Martellozzo, missionario gesuita da oltre 60 anni in Africa, attua nella diocesi di Mongo

Far fiorire il deserto… Ciad: unire le forze contro l’aridità

Può sembrare strano che in Ciad un terreno arido e sassoso possa essere al centro di così tanti e proficui progetti ecologici di sostegno alla popolazione locale. E invece è tutta realtà. Grazie al lavoro di padre Franco Martellozzo (nella foto), gesuita, 61 anni di missione in Africa, ai suoi collaboratori e a una rete di sostenitori che lo supporta nella concretizzazione di mille idee.

Sconfiggere la fame. Ecco allora i tanti fronti aperti nella comunità parrocchiale di Baro (diocesi di Mongo) e nei dintorni, dove da decenni l’impegno per sconfiggere la fame è totale, ponendo un freno alle terribili conseguenze della siccità e della desertificazione che avanza: gli “orti delle donne”, che hanno portato a un netto miglioramento alimentare nelle famiglie; la realizzazione di pozzi, che ha coinvolto i neobattezzati adolescenti; le “dighette” per l’accumulo dell’acqua piovana; la messa a dimora di migliaia di alberelli, ognuno affidato a un bambino; la costruzione di aratri per migliorare il rendimento del terreno, costruiti in quattro officine della diocesi con il ferro delle balestre dei camion in disuso; un sistema di riciclaggio della plastica con l’aiuto dei ragazzi; le 354 “banche dei cereali” per porre un freno alla speculazione dei prezzi. Tutto ciò nasce dalla fiducia in padre Franco, che per anni non ha temuto di vivere in una capanna per capire e per realizzare le idee insieme alla gente, con i loro tempi, in collaborazione con i musulmani, con il lavoro volontario per il bene comune.

Un albero per ogni alunno. L’impegno per il rimboschimento è legato all’iniziativa “Un albero per alunno” che permette di mettere a dimora migliaia di piante in un anno. L’obiettivo è anche quello di educare i bambini alla cura dei beni comuni, attraverso tecniche di coltivazione di alberi autoctoni o comunque adatti a quei terreni. Così ad ogni ragazzo viene affidata una piantina, durante una cerimonia in chiesa, davanti a tutta la comunità, con la richiesta di piantarla e prendersene cura. “Questo metodo – spiega padre Martellozzo – ha dato frutti stupendi: le nuove generazioni sono molto più coscienti e fedeli all’impegno di preservare il Creato. Non solo: l’iniziativa della nostra comunità ha dato l’esempio anche ai bambini musulmani dei villaggi limitrofi che oggi, guidati da associazioni locali, fanno altrettanto”. Ogni anno si contano in totale 7-8mila alberi piantati dai ragazzi e protetti dalla loro cura, che sopravvivono nonostante la presenza di cammelli e capre e malgrado la siccità e i cambiamenti climatici.

La ricchezza di un orto. Gli “orti delle donne” sono stati una rivoluzione nella missione di Baro. Soprattutto perché gestiti dalle mamme, che hanno trovato il modo di assicurare cibo alla propria famiglia. Non solo: i bambini, aiutando le madri nella coltivazione, imparano un mestiere che possono praticare da grandi. Prima che quest’iniziativa prendesse vita, molti genitori erano costretti ad andare nel Sud del Paese in cerca di lavoro. E le famiglie si dividevano. Gli orti coltivati a diversi ortaggi e recintati con reti metalliche per proteggerli dagli animali, insieme alla costruzione di alcuni pozzi che assicurano l’acqua, sono stati una soluzione vincente anche contro l’emigrazione.

Piccole dighe per grandi raccolti. Oltre ai pozzi, recentemente è iniziata la costruzione di “dighette” per trattenere l’acqua piovana. Negli ultimi tempi, infatti, il clima sembra impazzito anche qui: periodi di siccità si alternano a forti piogge che invadono i terreni aridi. Ma padre Franco e i suoi collaboratori hanno pensato di utilizzare l’acqua, concretizzando l’idea di costruire piccole dighe con pietre recuperate in loco. Squadre di persone hanno trasportato sassi di varia grandezza, sistemandoli come fossero dei muretti, bassi e massicci. Il tutto tenuto insieme da reti di contenimento che ostacolano la spinta dell’acqua. Un lavoro collettivo, che ha portato alla realizzazione di “tanti piccoli miracoli ecologici prodotti dalle nostre dighe in massi granitici”, scrive il missionario in una lettera di aggiornamento ai benefattori italiani. E le coltivazioni, grazie alle piccole dighe, assicurano raccolti generosi.

Cereali, non per lingotti d’oro. Ad oggi le “banche dei cereali” sono 354 sparse in tutta la zona, per un totale di circa 35mila aderenti e il beneficio di 350mila persone. Ma il progetto continua ad espandersi, proprio dove i raccolti sono molto più preziosi dell’oro. Da fuori sembrano forzieri in muratura, senza fessure né punti vulnerabili. Ma gli intrusi da tenere lontani non sono i ladri: sono topi e insetti voraci. All’interno di queste banche, infatti, non vengono stipati lingotti d’oro, ma granaglie in grandi quantità. Capita spesso che gli agricoltori vendano parte dei loro cereali al momento del raccolto per avere un po’ di soldi per le altre necessità. Se tutti vendono nello stesso momento, però, i prezzi si abbassano e i commercianti che comprano immagazzinano la merce per poi rivenderla più cara quando le riserve dei contadini scarseggiano. Allora chi non ha soldi per sfamarsi vende l’aratro o capi di bestiame, entrando in un circolo vizioso di debiti. Una soluzione che rompe questa forma di schiavitù è un magazzino dove conservare la riserva di cereali, a cui le famiglie possono attingere nel periodo di scarsità. In che modo? A un agricoltore si prestano uno o più sacchi di granaglie che si trovano nella banca, con l’impegno di restituire la stessa quantità, più una piccola parte, quando sarà pronto il nuovo raccolto della successiva stagione. E così dalla prima “banca per cereali”, ne sono nate tante altre.

Chiara Pellicci*

*Popoli e Missione

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir