I figli, frecce scoccate dall’arco. Dio “mette alla prova” Abramo, lo chiama per nome
La richiesta del Signore appare per la nostra mentalità addirittura blasfema: sacrificare il suo unigenito figlio! Ma com’è possibile fare questa richiesta? Adesso!? Dopo tutto quello che c’è stato?
“Dopo queste cose” (Gen 22, 1-19). C’è un mondo dentro questa espressione sintetica. Abramo è un uomo che ha vissuto una lunga e avventurosa vita, che ha camminato tanto con i piedi e soprattutto con la sua fede.
Un “nomade per Dio” che in Lui ha trovato la sua pace e il compimento di quella grande e misteriosa promessa a cui, alla fine, si è affidato contro ogni speranza. Ora può godere il frutto maturo di questa sua “giustizia” che gli viene accreditata (Rm 4,3) e con lui sua moglie Sara – che per altro in questa fase del racconto finisce un po’ in secondo piano e non viene più nominata, se non per la sua sepoltura. Entrambi contemplano il figlio Isacco, il figlio della promessa, un ragazzo che possiamo immaginare come tutti gli altri e pure per loro diversissimo.
Non hanno occhi che per lui, per la sua crescita, i suoi progressi, i suoi talenti. La circoncisione, l’iniziazione alla fede che si assimila come il latte materno, la legge e i precetti, il lavoro a fianco del padre. Chissà, forse Isacco è un figlio irreprensibile e ubbidiente, oppure è un po’ viziato da quei genitori anziani che tanto lo amano. A noi non è dato saperlo. Quel che è certo è che la famiglia di Abramo in questo momento pare non aver più nulla da chiedere e forse non si aspetta neanche più nulla. Non che si possa demonizzare la tranquillità, eppure è come se in ogni momento della nostra vita fossimo chiamati a lasciare uno spazio ad un Altro che ci chiede di mantenere aperta la porta di un dialogo sempre orientato al “mistero”. È qui che il Signore si ripresenta alla coscienza di Abramo, si fa protagonista un’altra volta ed in modo davvero del tutto stravolgente.
Dio “mette alla prova” Abramo, lo chiama per nome ed ancora una volta il vecchio come un bambino con suo padre risponde “eccomi”: sono qua, fa di me ciò che vuoi, sono pronto, mi fido di te. La richiesta del Signore appare per la nostra mentalità addirittura blasfema: sacrificare il suo unigenito figlio! Ma com’è possibile fare questa richiesta? Adesso!? Dopo tutto quello che c’è stato? E non basta che gli storici ci dicano che i sacrifici umani allora erano all’ordine del giorno, il Dio di Abramo non può volere questo, no, tutti noi ci ribelliamo. Immagino Abramo strozzare il grido nella notte sul suo giaciglio, non riuscire neanche a condividere con Sara quel macigno sul suo cuore. Poi una mattina, raccoglie tutte le forze e si prepara a questo nuovo viaggio: un viaggio verso il baratro, con il cuore gonfio di angoscia. Ogni gesto è fatto con lentezza, come se nel frattempo potesse sorgere in lui una consolazione, una rassegnazione o forse l’insperato contrordine. E Sara cos’avrà potuto capire e cos’ha avrà detto in quei frangenti? Oppure avrà taciuto, come affidata anche lei al mistero e avrà seguito con lo sguardo il marito e il figlio allontanarsi fino a perderli oltre l’orizzonte.
Che preghiera sarà sorta nel cuore di questi genitori così messi in balia di un volere del tutto estraneo ad ogni concezione umana? Quando Isacco chiede al padre dov’è l’agnello per l’olocausto, Abramo è già sintonizzato nel solco della sua vocazione che lo rende davvero padre di tutti i credenti: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto”. Dio agisce, oltre me, oltre le mie possibilità, i miei affanni, i miei progetti, mi affido totalmente, mi abbandono a lui come un corpo che si lascia cadere nel vuoto sapendo che delle braccia apparentemente invisibili lo sosterranno. Questa è la fede fragile come un sospiro e granitica come una pietra che permette ad Abramo di dire ai suoi servi di fermarsi e proseguire da solo con quel figlio che fra breve capirà cosa gli sta succedendo. Timore e tremore come il titolo dell’opera di Kierkegaard sull’episodio, non sembra esserci spazio per altro. Dio aspetta fino all’ultimo, poi ferma la mano di Abramo, “cavaliere della fede”, con il coltello sguainato e cambia la storia della Salvezza. Non sacrifici umani! Mai più! Ma misericordia e amore: questo il Signore ha voluto chiedere ancora al suo figlio Abramo.
Ha voluto ancora una volta fargli dono di una verità che vale per ogni uomo e ogni donna di questa terra: i figli non sono nostri, nessuno, mai, non sono un possesso e non possiamo arrogarci nessun diritto su di loro. Il Signore dà, il Signore toglie… nella libertà di ciascuno che è chiamato a scrivere la sua scia nel cielo della vita. Non ne siamo padroni, come ha cantato mirabilmente Tagore, sono frecce scoccate dal nostro arco la cui direttrice non dipende più solo dai nostri intendimenti. Abramo torna a casa con Isacco e chissà Sara come sarà loro corsa incontro, libera dal presentimento e dalla paura, ma pronta ad ascoltare dal marito, magari in molte altre notti insonni, che quel figlio che dorme lì vicino a loro, non è per loro, almeno non solo per loro, ma destinato – come ciascuno di noi – ad essere protagonista insostituibile di una storia di salvezza che non accetta la tentazione del possesso, ma si nutre e procede solo quando si fa dono.