Prigionieri del “Tutto e subito”. Ma così si bruciano i ragazzi...
Classe ’56, di Monselice, Giorgio Molon è insegnante di scienze motorie all’istituto Kennedy, sempre di Monselice. Responsabile del settore giovanile del Calcio Padova sino al termine della scorsa stagione (per 13 anni filati e complessivamente – in periodi diversi e incarichi vari – una ventina i suoi anni in biancoscudato), ha avuto il medesimo incarico sia alla Reggina che al Venezia. Componente del direttivo nazionale del settore giovanile scolastico della Figc, è docente nei corsi allenatori del settore tecnico (nello specifico per la formazione degli allenatori di settore giovanile).
«No, proprio non me l’aspettavo di lasciare il Padova. Magari ogni anno me lo dicevo che prima o poi sarebbe finita, ma si veniva da un anno pieno di soddisfazioni, una squadra vicecampione d’Italia, un’altra in semifinale scudetto, tanti ragazzi richiesti, quel piano triennale che era stato messo in piedi all’indomani del fallimento della società – m’avevano chiesto di salvaguardare il più possibile la struttura del settore giovanile – era stato ben rispettato ed ero quindi da parte mia ben sereno.
Poi le dinamiche legate al cambio della proprietà sono state una sorpresa per tutti, proprio un altro modo di vedere le cose e questo ha comportato che non ci fossero più le condizioni per continuare. Per fortuna i dati sono lì che parlano, dati oggettivi, non giusto parole e dunque sono sereno, pure fiero e orgoglioso di aver contribuito alla crescita e alla valorizzazione di tante generazioni di ragazzi».
«Lavorare in e per un settore giovanile – specie in un mondo in cui si richiede “tutto e subito” – non è facile. Sono pochissimi qui da noi gli ambienti che davvero favoriscono la valorizzazione dei settori giovanili e dunque è molto difficile per i ragazzi avere la possibilità, la “spinta” per mettersi in mostra. Come si fa se non c’è cultura, sensibilità e progetti concreti?».
«Il calcio e lo sport in genere sono strumenti per crescere: come si fa però a sapere quando un ragazzo riesce a essere giocatore? Non si sa prima: a 10, 12, 14 anni? A 22?».
«Ce ne sono tante di cose che si devono incastrare: la famiglia, la società, l’allenatore e poi chissà quanto altro, le amicizie, gli infortuni e ancora e ancora. Ogni storia, ogni percorso va circostanziato, contestualizzato. Vedo società – sia dilettanti che professioniste – avere in rosa per esordienti e giovanissimi un numero spropositato di ragazzini, chi 24, chi addirittura 30. Ma come si fa ad avere un così implicito disprezzo delle cosiddette risorse umane?».
«Da una parte si spendono soldi nei settori giovanili, ma visto che c’è questo “tutto e subito”, raramente poi li si valorizzano “i prodotti”. Faccio l’esempio di quattro ragazzi che l’anno del fallimento se ne sono andati via dal Padova e sono passati al Cittadella. Ora giocano in serie B: ma Caccin, Fasolo, Maniero e Varnier giocherebbero in C col Padova?».
«Sì, sempre questo modo di dire, che sarebbe molto meglio allenare una squadra di orfani, pur di non aver a che fare con i genitori. Chi dice questo per me è sostanzialmente fuori dalla realtà in cui viviamo. Ma come, tu influisci sui figli e non vuoi relazionarti con i genitori?
No, ci vuole consapevolezza, ci vuole concertazione, bisogna insistere.
Anche perché bisogna prepararli per i problemi che i figli dovranno affrontare. Penso ad esempio al rapporto col procuratore, mai tanto attuale visti anche i casi di questa estate. Con che criterio lo scelgono? E quando? Solleciti alle famiglie arrivano già quando un ragazzino può avere 10 anni: come si fa a essere preparati? Basta magari che arrivi uno che usa le parole giuste – quelle che vogliono sentirsi dire – per cancellare in un attimo quel rapporto fiduciario che negli anni è stato instaurato con la società: perché dare subito più fiducia a lui, rispetto a chi ha fatto crescere tuo figlio?».
«Beh, capita anche a scuola, è sempre colpa del prof, come in campo dell’allenatore.
Il figlio non ha difetti, a prescindere: genitori che investono sui figli, che se non vedono il “tutto e subito” (non è titolare, gioca poco, fuori ruolo) cambiano subito società e avanti così, col risultato che già a 18 anni sono impressionanti i numeri dei ragazzi che smettono. Si dovrebbe invece essere «umili», andarci piano, cercando di essere più oggettivi.
Sognare è una cosa, ci può anche stare, ma bisogna educarli a stare comunque con i piedi per terra, insegnando loro a relazionarsi con la gente, anche perché così imparano a conoscersi».
«Lo vedo anche a scuola, stanno venendo su generazioni di ragazzi più fragili, proprio perché togliamo loro davanti le difficoltà e non li mettiamo così nelle condizioni di avere la maturità per affrontare le situazioni, il cosa fa bene e il cosa fa male».