Dan Thomassen: «In campo ero uno “serio”, così ho fatto strada»
Danese di Aarhus, classe 1981, difensore, Dan Thomassen in carriera ha vestito le maglie di Padova (in C2, C1 e D), Copenaghen (A danese, due scudetti, giocando pure in Champions League), Valerenga (A norvegese), Aarhus (A danese), Triestina (C1), Este (D), Abano (D) e Vigontina San Paolo (D). Sposato con Michela (sorella di Daniele Gastaldello, ora al Bologna; hanno un figlio, Christian, di dieci anni), vive a Reschigliano. Gioca ancora, per divertimento, e vende vino. «Come calciatore penso d’aver dato il 120 per cento, con una dedizione assoluta, ed è questa che mi ha permesso di fare la carriera che ho fatto. Penso ai tanti e tanti che avevano più di me di qualità, dunque erano più avanti e poi vedevo che li raggiungevo, anche li superavo: sì, sono stato e sono uno “serio”, di più».
«Mi sto allenando adesso con l’Albignasego, voglia di giocare ne ho ancora e me ne sono reso conto giusto ieri sera, partitina vinta al 90°, ero contento tornandomene a casa, non importa che il campo fosse di terra…
Quest’anno avevo cominciato con la Vigontina proprio perché si allenavano di sera, poi sono passati al pomeriggio, ho il lavoro e così mi ritrovo fermo ma almeno un altro anno lo voglio giocare, sicuro. Sono venuto qui da voi che avevo 17 anni, ricordo l’orgoglio misto a un po’ di ansia, forse anche paura e comunque ci ho messo dieci secondi, anche meno, a dire sì quando sono venuto qui in prova.
Una settimana, io dormivo alla Guizza, mio padre in un albergo poco lontano. Una settimana quella che mi è servita per capire che le cose lì al Padova erano fatte bene, c’era organizzazione e lo capisco meglio ora che c’era pure chi teneva sempre d’occhio la situazione, che seguiva le cose. Penso in particolare a Carlo Sabatini, pure lui dormiva lì, tra l’altro se la cavava pure con l’inglese e stare con tutti gli altri ragazzi m’è servito per la lingua, per fare più in fretta, con in più le lezioni alla Zanini, con quella professoressa: si partiva dall’inglese per arrivare all’italiano. E c’è poi quell’altra cosa di voi italiani che mi ha aiutato, il modo di approcciare le persone, siamo diversi là in Danimarca. Penso per esempio alla vostra cultura gastronomica, proprio così, quel vostro mangiare assieme che è proprio un’attività sociale primaria, il valore di una tavolata, non è solo bere e mangiare».
Danese di Aarhus, classe 1981, difensore, Dan Thomassen in carriera ha vestito le maglie di Padova (in C2, C1 e D), Copenaghen (A danese, due scudetti, giocando pure in Champions League), Valerenga (A norvegese), Aarhus (A danese), Triestina (C1), Este (D), Abano (D) e Vigontina San Paolo (D). Sposato con Michela (sorella di Daniele Gastaldello, ora al Bologna; hanno un figlio, Christian, di dieci anni), vive a Reschigliano.
«Come calciatore penso d’aver dato il 120 per cento, con una dedizione assoluta, ed è questa che mi ha permesso di fare la carriera che ho fatto. Penso ai tanti e tanti che avevano più di me di qualità, dunque erano più avanti e poi vedevo che li raggiungevo, anche li superavo: sì, sono stato e sono uno “serio”, di più. Sono contento di quello che ho fatto, non è poco considerando quanto io sia stato sempre molto esigente verso me stesso, certo che ora penso che avrei potuto magari fare ancora di più, non sempre le ho azzeccate le scelte calcistiche che ho fatto nel mio percorso. Al dopo è già un po’ che ci penso e ho preso intanto il patentino Uefa B come allenatore, ma più che lo specifico del “mister”, mi attira la cosiddetta gestione delle risorse umane, ne ho visti chissà quanti che come detto avevano grandi qualità tecnico-fisiche, ma è da lì sopra, dalla testa, che parte tutto. D’accordo, adesso si parla tanto di mental coach ed è comunque in quel campo che sento potrei essere e sentirmi utile».
«Per me è fondamentale che le cose vengano fatte con passione e un altro mondo che mi affascina, per cui sento passione, è quello del vino. Ho fatto il corso per sommelier ed è ora più di un anno che lavoro. Vendo vino, sì, ho un portafoglio di aziende e giro così per enoteche e ristoranti. Mi sono sentito all’inizio davvero un apprendista, direi che ho iniziato con umiltà dalla base, cercando persone che mi insegnassero e mi indirizzassero e penso di averle trovate».
«Sì, sono stato sempre uno da spogliatoio, ho sempre cercato di tenere presente il gruppo, a volte pure a scapito del mio di interesse.
Con i giovani? (sospiro) Di certo so che mi devo adeguare, che non è proprio possibile ragionare partendo da “ai miei tempi”, ma non è facile con loro. A me pare che manchi un po’ la fame e pare che per loro tutto debba arrivare subito, immediato, e devi stare attento, la devi cercare la via giusta. So che è una parola forte, ma li trovo fragili, ecco: non è facile.
«Certo, mi sento danese, quelle sono le mie radici ma ne ho pure tanti di rami italiani e il fatto che abbia deciso di vivere qui, qualcosa significa, no? Però spero di aggiungerne altri… di rami, di stare con la mente aperta. Ho giocato anche in Norvegia, quando vai via da un posto significa che da lontano hai modo di vedere un po’ meglio le cose, puoi fare confronti ed è questo che mi piace. Si può sempre imparare, da tutti».