Emilio Da Re, il "capitano serissimo" rimasto nel cuore di Padova
Emilio Da Re è nato a Vittorio Veneto (Tv) nel marzo del 1958. Centrocampista, dopo quattro stagioni col Conegliano (D-C2) e una breve parentesi di tre mesi a Campobasso (C1), ha giocato due campionati col Mestre (C2). È arrivato a Padova nella stagione 81-82, rimanendovi sino all’88-89: otto campionati tra C1 e B, per un totale di 250 presenze con la maglia biancoscudata, a lungo con la fascia di capitano. «Dai, vuol dire che qualcosa di buono ho fatto e mi continua un po’ a stupire che girando per Padova ci sia sempre qualcuno che mi saluta, gente che non conosco: sorpreso e orgoglioso».
«Devo dirti che ora come ora – ed è ormai da un po’ – il lavoro mi ha proprio preso, più di prima, e così lo seguo meno il calcio. Ora lo guardo in televisione e quelli che seguo sono gli amici che tuttora ci sono dentro, tipo Baroni che adesso allena in B il Benevento o Salvatori che fa il direttore sportivo a Trapani, così il lunedì vado a vedere sul giornale cos’hanno fatto. Non è poi che l’altra offerta televisiva sia granché, meglio dunque lo sport, specie il campionato inglese, quel clima/ambiente che si percepisce, proprio un dato culturale diverso dal nostro e me ne ha parlato un altro amico, Bortoluzzi, lui che faceva il secondo a Guidolin quand’erano ancora allo Swansea.
No, sono anni che nemmeno vado a vedere il Padova, però abito vicino all’Appiani, una deviazione per via Carducci mi è facile e la faccio spesso. Entro lì dentro, hanno fatto un bel lavoro e ricordo quanto mi sia emozionato a veder la mia foto lì, sulla nuova tribuna. Dai, vuol dire che qualcosa di buono ho fatto e mi continua un po’ a stupire che girando per Padova ci sia sempre qualcuno che mi saluta, gente che non conosco: sorpreso e orgoglioso».
Emilio Da Re è nato a Vittorio Veneto (Tv) nel marzo del 1958.
Centrocampista, dopo quattro stagioni col Conegliano (D-C2) e una breve parentesi di tre mesi a Campobasso (C1), ha giocato due campionati col Mestre (C2). È arrivato a Padova nella stagione 81-82, rimanendovi sino all’88-89: otto campionati tra C1 e B, per un totale di 250 presenze con la maglia biancoscudata, a lungo con la fascia di capitano.
Dopo Padova ha giocato due anni a Trento (C1), concludendo la carriera nel 91-92 col Conegliano (Interregionale). Sposato, una figlia (Lisa), laureato in economia e commercio, è un promotore finanziario e vive a Padova.
«Penso a quanto mi ha dato il calcio. Intanto il piacere di giocarlo e a livelli non certo banali; e poi è stato proprio il calcio che mi ha permesso, già dal settore giovanile del Conegliano, sin dai 16-17 anni, di rendermi economicamente autonomo dalla famiglia, di non pesare insomma, non so quanti potevano farlo allora a quell’età. E mi ha fatto andare avanti, sino a finire l’università, sempre senza pesare sulla mia famiglia che ricca certo non era. E poi le tante esperienze, le relazioni di vita, nello spogliatoio e fuori, il tutto – ancora – molto prima dei ragazzi della mia età. Io che nello spogliatoio ci sapevo stare, già a 24 anni lì a chiedermi di fare il capitano, avendo compagni di 30-35 anni, con le tante dinamiche che ci sono dentro il gruppo, i rapporti con la società, con tutto l’ambiente: anche questo fa crescere. Dicono che il calcio, come sport, sia una scuola di vita; sa da slogan, è vero, ma come può non essere così?»
«Torno a quando giocavo, alla possibilità di aver giocato in uno stadio come l’Appiani in anni in cui ce n’era sempre tanta di gente, 15-20 mila ogni domenica. Altra grande gratificazione, però con la consapevolezza che lì dentro poteva diventare anche molto dura e ricordo il mio ultimo anno, per me era sempre meglio giocare fuori casa: quello stesso pubblico che l’anno prima mi aveva eletto come miglior giocatore, m’aveva preso di mira, condizionato da quel che avevano scritto i giornali, cose non vere ma lasciamo stare, ormai è andata. Se gioco qualche volta? No, proprio no. Negli anni ho scoperto il golf, mi piace molto e il pallone non c’è più, per forza. L’ultima volta gli scarpini li ho messi diversi anni fa e ricordo ancora – a parte la “scoperta” che sarebbe stato facile farsi male – la tristezza che dentro ho provato per questo… oggetto sconosciuto che era diventato il pallone. Non dico vergognato, magari proprio no, ma mi sono proprio reso conto che il mio corpo e i miei piedi non andavano più d’accordo con quel “coso” che rotolava. Come t’ho detto, il calcio mi ha dato tantissimo, però voglio dirti che se si potesse tornare indietro, vorrei rifare quel che ho fatto con maggiore spensieratezza. Non ho detto meno seriamente, no, non potrei altro che farlo nella maniera in cui l’ho fatto – serissimo – ma intendo quel mio continuamente pensare al domani, a quel che veniva dopo, lasciando così però per strada il presente. Vivere insomma come ho detto con più spensieratezza, ecco. Però è un po’ lo stesso adesso col lavoro e si vede che così sono pure fatto, poco da fare».