Neto Pereira, il brasiliano “tranquillo” capitano del Padova
Classe 1979, brasiliano di General Carneiro (Stato del Mato Grosso) ha via via giocato con Itala San Marco (D-C2), Varese (C1-B) e Padova (C). Capitano ora dei biancoscudati, da poche settimane è diventato papà: è nata Bianca.
Dice che sono ormai 16 che è qui in Italia, lui che nella sua vita ha fatto in pratica solo calcio. Dato che la passione gli brucia sempre dentro, ecco che il futuro, il famoso “dopo”, lo immagina e lo vede sempre qui da noi. Non però da allenatore, no grazie, dice di non avere il carattere giusto, non è tipo per dire da scenate, da attaccare uno sul muro e qualche volta lì nello spogliatoio possono anche servire, è vero. Leonidas è il nome; Neto (in brasiliano vuol dire nipote) è un omaggio al nonno; Pereira il cognome del papà; De Souza è il cognome della mamma. Mettendo dunque tutto bene in fila ecco Leonidas Neto Pereira De Souza, capitano del Padova: anche nei nomi hanno musica e ritmo 'sti brasiliani.
«Fin da piccolo il mio unico giocattolo è stato il pallone, non era ancora quello il tempo dei videogiochi. La prima volta che sono venuto in Italia l’ho fatto per il Torneo di Viareggio, con una selezione di ragazzi brasiliani e ricordo quel misto di orgoglio, eccitazione e pure paura per una cosa così, tanto grande. Lo stesso per i miei genitori, contenti per me ma quanta preoccupazione... Lì al Viareggio fummo presto eliminati, ma feci bene, pure in Svizzera poi andai, un provino anche con la Cremonese e infine a Gradisca d’Isonzo, era serie D, mi presero, da lì è cominciata».
«Ogni anno pareva potessi salire tra i professionisti ma poi non succedeva e il peggio è stato quando dovevo andare alla Triestina, in serie B: pareva tutto fatto, già mi allenavo con loro e m’ero reso conto che era proprio un bel salto in alto per me, ma poi tutto si bloccò, problemi di carte, ero un extracomunitario. Come mi avessero sbattuto la porta in faccia, lì sì ne ho avuti tanti di dubbi: tutto inutile? Poi invece siamo saliti in C proprio con l’Itala, ho ritrovato entusiasmo: sì, potevo farcela».
«Adesso di anni ne ho quasi 38, per forza devo pensare che sta per finire e se sono ancora qui alla mia età, in una squadra importante dove si vuol vincere, significa che l’ho fatto bene questo mestiere, mi ci sono dedicato.
Certo che sono un privilegiato, come no, soprattutto perché faccio per lavoro qualcosa che mi piace proprio tanto, ne ho ancora tanta di passione, quanta gente c’è che va a lavorare e non ne ha voglia, non piace quel che fa, quanta. Sì, sono il capitano, l’anno scorso era Cunico, io ero il vice ed è stata così una cosa automatica. Sono un capitano “tranquillo”, niente gesti plateali, preferisco parlare, cercare di far capire, quanto sempre sia importante – per tutti – il rispetto. Con i giovani bisogna avere pazienza e io ce l’ho, specie adesso che loro pretendono tutto e subito. È importante parlare e parlare, devono sentire intanto che c’è fiducia ed è una cosa questa che apprezzano e così possono esprimersi, dare il meglio».
«La partita che proprio non dimentico è il mio esordio in B, col Varese. Quel giorno andammo a giocare a Torino, contro il Torino. Ricordo l’entrare in quello stadio, l’Olimpico, la gente che c’era, un’atmosfera particolare, che bello. E vincemmo e feci gol: come posso dimenticarmene?».
«In Brasile, lì a casa, ci vado tutti gli anni, ci tengo, sempre d’estate e qualche volta pure durante la sosta invernale. C’è mia madre, c’è mio padre e mio fratello, è ingegnere, lui sì che ha studiato, non come me che ho fatto proprio poco. Beh, di panchine ne ho fatte anch’io, come no. La cosa più semplice e facile è quella di prendersela col mister, che non ti vede eccetera eccetera, ma io ho sempre pensato prima che magari era colpa mia, cosa io potevo fare di più e meglio, non trovare insomma delle scuse. Di mio so di averci messo tutto me stesso, ne ho avuti tanti di momenti di difficoltà ed è stata soprattutto la mia forza di volontà che mi ha permesso di arrivare sino qua. La devi avere questa voglia, sempre, di essere protagonista, di darlo per bene il tuo contributo. Altrimenti non puoi giocare a calcio, puoi giocare giusto per giocare, ma è un’altra cosa».