“Grazie al calcio, sto scoprendo l’Africa. E me ne sto innamorando”
Classe ’57, Maurizio Tubaldo (Bastia di Rovolon) ha giocato a suo tempo via via con Padova, Belluno, Monselice, Venezia, Giorgione e Rovigo. Da subito allenatore, ha messo assieme una lunghissima esperienza a livello di settore giovanile, allenando pure la prima squadra dell’Ospedaletto Euganeo e facendo il secondo a Romanzini nel Venezia e a Longhi nel San Paolo.
Attualmente allena a Este i pulcini e gli esordienti. Ma nel suo cuore sta prendendo sempre più spazio l’Africa...
“Sono una trentina d’anni che alleno, ricordo che quando ho iniziato quel che volevo era giusto insegnare, in particolare la tecnica, un qualcosa che a me è mancato.
Dunque: più giovane sei, meglio impari. Ho allenato pure prime squadre ma anche allora la prendevo comunque una squadra di ragazzini, lì, a insegnare tecnica.
Via via mi pare d’aver capito negli anni che in campo – specie con i piccolini – è meglio essere esigenti e determinati, è poi fuori del campo che puoi essere più “umano”, più a disposizione. Anche se, con le generazioni che stanno venendo su, così abituate a non essere più riprese, può essere un ostacolo. Ma non è che io sia lì per riprenderli, non è questo che voglio: specie con i ragazzini bisogna stare proprio attenti, facile sbagliare, anche senza volerlo.
Però dalla mia ho i riscontri: tanti ragazzi che un tempo ho allenato, magari capita che passino di qui, da Bastia e mi vengano a trovare
Me lo dicono loro che erano proprio dei testoni, che avevo ragione. Con gli anni ho capito insomma che la disciplina diventa poi autodisciplina, un momento di formazione.
Un tempo – si sa – quasi si tremava davanti a un allenatore, a un insegnante e capisco che ora vado quasi a scombussolare quello a cui sono abituati: lì sul campo niente è dovuto, ogni passo se lo devono conquistare.
Coi genitori?
Dipende dai posti, ma in sintesi io penso che non siano mai del tutto sinceri, quasi che non lo possano poi essere, c’è comunque sempre un qualcosa che vogliono dall’allenatore, quasi a imbonirlo, a farselo amico, sempre convinti d’aver un figlio che può senz’altro fare carriera, ma il mondo “tecnico” è molto diverso da quel che si vede da fuori. Ragazzi cambiati perché i genitori sono cambiati: a mio padre il calcio piaceva, eppure ha cominciato a venirmi a vedere quand’ero in prima squadra, mai prima”.
“Sì, il calcio mi piace ancora, nonostante le storture che ci sono, come sempre.
Cominci a giocare giusto perché ti piace, poi alleni perché ti piace e finisci per continuare proprio perché ti piace. Diventa così un po’ il tuo mondo e – così è per me – diventa pure un modo per realizzarti.
D’accordo i soldi, c’è anche questo aspetto del “lavoro”, ma c’è un calcio pure fatto dal basso, con allenatori che fanno le cose con passione e attenzione e qui non posso non pensare a Scantamburlo, lì al Padova, la sua umanità, il suo saperli conoscere i ragazzi, specie quelli che parlavano meno, i più timidi. Lui capiva ed è stata proprio una grande persona dentro il mondo del calcio”.
“Se ho dei progetti? A questa età? Mah, una delle possibilità è di andarmene in Africa, chissà.
Ci sono stato anni fa, allora in Kenya. Poi per una serie di coincidenze ci sono tornato in questi ultimi due anni, d’estate, in Ghana. Il calcio c’entra perché c’era e c’è da dare una mano a un settore giovanile di laggiù, pensa che a dirigerlo c’è un mio ex calciatore, ghanese, l’ho allenato quand’ero a Sossano, ricordo la volta che mi venne salutare, doveva tornare dopo 15 giorni e l’ho rivisto dopo 7 anni.
Il fatto è che per loro avere degli allenatori bianchi è importante, danno lustro allo stesso settore giovanile.
Grazie al calcio ho potuto così conoscere di più, cercare di capire quel che sono, cosa vogliono. Un po’ almeno.
Ho capito quanto desiderino ad esempio l’Europa e certo la percezione che hanno è quella che qui siamo tutti ricchi, che i soldi li troviamo quasi per terra, che ogni bianco sia insomma ricco e c’è una certa qual deferenza, quasi che noi bianchi fossimo “superiori”.
Mie sensazioni, sia chiaro, ma star lì mi ha permesso di vedere come vivono, come intendono la vita, quanto si “arrangino”, la precarietà che hanno e a cui sono abituati, che per loro è quella di sempre, è normale: specie dopo la crisi che c’è stata qui, anche noi adesso sappiamo forse più di prima cosa vuol dire l’arrangiarsi.
Giocano un calcio creativo, istintivo, veloce e fisico, tutte qualità che stanno un po’ scomparendo qui da noi.
Mal d’Africa? Non so, intanto l’anno prossimo ci torno. In effetti dentro capisco che non vedo l’ora di tornarci, un’idea che un po’ mi tormenta e che riappare appena torno qui. Non so bene cos’è, questo mi capita”.