«Ora la sinodalità della chiesa non è più un optional»
Lo storico Alberto Melloni: «Non serve a ridurre i conflitti ma a farli emergere e trasformarli in ingredienti di una maggiore comunione». E ancora: «Mettere in pratica l'ascolto reciproco che aiuti a capire di più le esigenze del vangelo e non di dire delle cose più appetibili al gusto moderno o che rispondano alle esigenze di qualche “intellettuale dei miei stivali”, come diceva Bettino Craxi».
Terminati i lavori del Sinodo straordinario sulla famiglia, è tempo di sintesi e di prospettive per gettare luce sul cammino che porterà nel 2015 alla seconda e definitiva tappa del percorso sinodale.
Abbiamo chiesto al prof. Alberto Melloni, ordinario di storia del cristianesimo nell’università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, un suo parere sull’evento Sinodo nel suo insieme.
Si è appena conclusa la prima tappa del Sinodo straordinario sulla famiglia. Che bilancio si sente di tracciarne in relazione alla chiesa cattolica nel suo insieme?
«Sicuramente un bilancio molto positivo per diversi motivi. Il primo è che papa Francesco ne ha fatto un esperimento tipico del suo modo di affrontare le questioni istituzionali, cioè riuscire a fare delle azioni di riforma della chiesa “a norme invariate”, e su questo ha ottenuto un grosso risultato. Questo Sinodo è stato infatti un luogo di confronto di opinioni, non fra “capi” ma fra chiese, non di sensibilità dei singoli, ma di sensibilità delle chiese. Una seconda ragione è che questo Sinodo ha sollecitato tutti ad accettare un principio chiave del Concilio Vaticano II che è quello della cosiddetta “pastoralità”. I padri sinodali infatti hanno affrontato questioni concrete, non a partire dalla costruzione a tavolino di equilibri di tipo dottrinale, ma misurandosi con la cura pastorale concreta le cui ricadute non sono certo minori dell’aspetto dottrinale. Una terza ragione è che questo Sinodo ha rappresentato l’uscita da una difficile stagione del cattolicesimo romano, caratterizzata da “molto mugugno e poco pensiero”, cioè una certa resistenza a dire o far dire cose che non sono gradite o gradevoli a chi sta più in alto. In definitiva, è emerso con forza che la sinodalità della chiesa non è un optional, ma parte integrante della sua esperienza e struttura, e che essa non serve a ridurre i conflitti ma a farli emergere e trasformarli in ingredienti di una maggiore comunione».
Intravede qualche elemento di novità, alla luce del Sinodo, in relazione all’esercizio del papato e, in specie, a papa Francesco?
«Mi sembra che il papa abbia guadagnato davanti a tutte le chiese un titolo di merito molto particolare, quello cioè di aver attivato una collegialità “effettiva” nella chiesa e non solo una collegialità “affettiva”. Ha fatto vedere che lo strumento collegiale del Sinodo non è una cosa da “tenere in frigorifero” in attesa di un concilio ecumenico, ma rappresenta il modo e la sostanza con cui possono funzionare tutte le istanze della vita delle comunità cristiane, anche a livello generale, con conseguenze ecumeniche potenzialmente immense e inaspettate».
Professor Melloni, come considera lei questa chiesa che sceglie di voler permanere in uno “stato sinodale”?
«Questo mi sembra il dato più importante. Stiamo imparando cosa vuol dire vivere in stato sinodale, cioè in una dimensione di collegialità che non sia semplicemente una tecnica politica per affrontare delle questioni, ma che sia un chiaro modo di “essere” chiesa. “Stato sinodale” di sicuro non vuol dire che tutti abbiano il diritto di dire qualsiasi cosa al microfono, come in una specie di radio libera dove ognuno manifesta quello che gli passa per la testa; il modo di coinvolgere le chiese in questo processo sinodale riguarda il loro stesso modo di funzionare come comunità, nelle parrocchie, nelle diocesi e anche nei movimenti. Si tratta di riuscire a mettere in pratica l’ascolto reciproco che aiuti a capire di più le esigenze del vangelo e non di dire delle cose più appetibili al gusto moderno o che rispondano alle esigenze di qualche “intellettuale dei miei stivali”, come diceva Bettino Craxi».
Vista la marcata declinazione pastorale fin qui assunta, quale sarà a suo avviso il ruolo dei teologi nella prosecuzione di questo Sinodo?
«Come accennavo, “pastorale” è una parola chiave del Vaticano II, una parola talmente pregnante che spesso non è stata capita, ancora oggi. “Pastorale” non vuol dire trovare il modo di non dire subito delle cose insopportabili a della gente che non le sopporterebbe e quindi addolcire la pillola con accomodamenti o di cose di questo genere. “Pastorale” vuol dire comunicare la dottrina in un modo più autentico, più profondo, più trasparente dei contenuti della dottrina stessa. Si tratta di una ricerca non meno faticosa né meno essenziale per la chiesa di quella che è stata la grande ricerca dottrinale per stabilire la formulazione delle verità di fede o dei dogmi».
Come studioso e storico, ritiene che questo Sinodo “entrerà nella storia” della chiesa oppure no? Per quali ragioni?
«Può darsi di sì, può darsi di no, lo sapremo fra un po’ di tempo. Questo sinodo segna la fine di una concezione minimalista della sinodalità, intesa come pura dimensione di carattere affettivo fra vescovi, verso una nuova stagione di autocomprensione sinodale del proprio percorso da parte del cattolicesimo romano. Questo potrebbe essere davvero un sinodo epocale perché, come ho già accennato, rappresenterebbe un passaggio di rinnovamento “a norme invariate”, cosa che sta a cuore a papa Francesco. Il papa probabilmente non è uno che si appassiona a scrivere un regolamento sinodale rinnovato, però è convinto, per una ragione tutta spirituale direttamente inserita nella sua esperienza di cristiano, che un cambiamento del cuore può modificare le istituzioni molto più che un cambiamento delle istituzioni senza un cambiamento del cuore. Se riuscirà a tradurre quest’idea nella vita concreta della chiesa, a mio avviso avrà fatto davvero un miracolo».