Sociale, proviamo con le Fondazioni di comunità
Il modello veneto dei servizi sociali è stato (e lo è tuttora) uno dei più innovativi ed efficaci d’Italia. Oggi però la comunità veneta, pur in modo differenziato tra area e area della regione, è cambiata. L’esercito dei capelli grigi è imponente, le culle sono sempre più vuote, il saldo nati-morti è negativo: nel 2015 meno 84 mila persone, oltre a una diminuzione degli immigrati che preferiscono salire verso il nord Europa. A questo cambiamento, demografico ed economico, non sono sufficienti le risposte collaudate degli ultimi due decenni. Serve un “cambiamento” di rotta della visione del sociale.
Il modello veneto dei servizi sociali è stato (e lo è tuttora) uno dei più innovativi ed efficaci d’Italia.
Alla base di questo successo, che dura da almeno 35 anni, stanno vari fattori: la visione di fondo (l’integrazione socio-sanitaria tra Ulss e comuni), il ruolo del “capitale umano” che presidia il mondo del bisogno (804 cooperative sociali, 1.473 associazioni di promozione sociale, 2.366 associazioni di volontariato), il significativo sostegno economico dei bilanci regionali e del Fondo sanitario.
Oggi però la comunità veneta, pur in modo differenziato tra area e area della regione, è cambiata.
L’esercito dei capelli grigi è imponente (il 13 per cento ha più di 75 anni), le culle sono sempre più vuote (1,33 figli per donna in età fertile), il saldo nati-morti è negativo: nel 2015 meno 84 mila persone, oltre a una diminuzione degli immigrati che preferiscono salire verso il nord Europa. Le stesse risorse dedicate al sociale sono in riduzione. A questo cambiamento, demografico ed economico, non sono sufficienti le risposte collaudate degli ultimi due decenni. Serve un “cambiamento” di rotta della visione del sociale.
Il primo cambiamento: il sociale non è un costo ma un investimento.
Allocare risorse per il benessere delle persone e delle famiglie induce un aumento del tasso di sviluppo economico e un aumento della presenza al lavoro; riduce gli accessi ai servizi sanitari (non esiste buona sanità senza una buona rete di servizi sociali); diventa infine un volano concreto per investimenti economici redditivi da parte di aziende operanti nell’edilizia e nel suo indotto, se pensiamo che una piccola Ulss del Veneto (188 mila abitanti) nel periodo 2005/15 ha prodotto investimenti per 60 milioni di euro nelle residenze protette per anziani, nelle strutture per disabili, malati mentali, minori, realizzando nuovi edifici, ristrutturando gli esistenti, curando il rinnovamento mobiliare.
Il secondo cambiamento: il sociale non potrà più basarsi esclusivamente sul pilastro pubblico
Il welfare state ha meriti rilevanti, ma ha anche indotto una dipendenza assistenziale. Dovremo costruire realmente una “welfare community”, dove pezzi di società si organizzano concretamente per dare risposte al bisogno sociale e spesso lo sanno fare con più celerità del pubblico; dovremo passare dalla logica delle singole prestazioni, magari importanti ma scollegate, a una rete di risposte che garantiscono la presa in carico della persona bisognosa; dovremo costruire un welfare che genera autonomia e non dipendenza: «Io ti aiuto per aumentare le tue autonomie». Così ogni euro che si immette nel sistema come istituzione deve generare ulteriori investimenti da parte della comunità.
Il terzo cambiamento è rappresentato dalle risorse economiche dedicate al settore in riduzione, più sul fronte dei servizi che dell’aiuto monetario individuale.
Il Fondo nazionale per le politiche sociali da tre anni è attestato sui 300 milioni di euro (24 vanno al Veneto), ma nel 2017 è possibile sia corretto al ribasso; il Fondo per la non autosufficienza, pari a 500 milioni, scenderà quasi sicuramente a 450 (il Veneto ne avrà circa 30); il Fondo per la famiglia è praticamente azzerato, dopo essersi attestato nel periodo 2010-15 sui 20 milioni di euro (di cui solo 5 divisi tra le regioni).
Ricordiamo l’importante stanziamento per la legge sul Dopo di noi che sta decollando proprio adesso nelle regioni: 90 milioni nel 2016, 38 nel 2017, 57 nel 2018 e successivi, di cui 7,3 al Veneto per il 2016.
Fondazioni di comunità, una strada da percorrere
Una possibile soluzione al problema economico (che riassume però anche una visione diversa del sociale) sta nella creazione, in ogni ambito territoriale veneto coincidente con le Asl, di una Fondazione di comunità alimentata, in sede di avvio, dalle risorse delle fondazioni bancarie.
Le Fondazioni di comunità al momento sono 32 in tutta Italia (5 in Veneto).
Con un patrimonio di 190 milioni di euro e donazioni pari a 22 milioni di euro annui (dati riferiti al 2014) stimolano la filantropia civile sul territorio e raccolgono risorse per attività di utilità sociale in ben 11 aree, dalla sanità al sociale, alla cultura, alla tutela ambientale, alla formazione, all’università, allo sport. Questi organismi sono enti non-profit che hanno lo scopo di promuovere il dono e la filantropia in un territorio.
Sono “intermediari filantropici”, ovvero supportano i donatori, sia privati che collettivi, nelle loro attività altruistiche, incrociandole con i bisogni della comunità. Il loro patrimonio si struttura per accumulo, con la costante raccolta di donazioni che provengono da elargizioni (in forma di donazioni, cessioni testamentarie, liberalità, fondi legati a specifici progetti).
Inserita nella cornice della programmazione dei servizi sociali locali (il Piano di zona) la Fondazione di comunità diventa quindi uno strumento integrativo (non sostitutivo) all’intervento tradizionale del welfare pubblico. Grazie a un lavoro competente di fund rising, alla gestione non parcellizzata del 5 per mille, la Fondazione di comunità potrà costruire fondi tematici per sostenere servizi, in varie aree, che le risorse pubbliche faticano a mantenere.
Alberto Leoni