Casa Madre Teresa festeggia i 10 anni aprendosi alla città
La struttura diocesana che supporta i malati di Alzheimer e le loro famiglie conclude con l'open day di martedì 4 ottobre. In questi dieci anni di attività la casa si è affermata come primo centro specializzato sul territorio, ora caposcuola in termini di esperienza e proposte formative. Cala progressivamente l'età delle persone seguite e variano sempre più le problematiche da accompagnare con il mutamento della composizione delle famiglie.
Martedì 4 ottobre casa Madre Teresa di Calcutta si apre alla città. La struttura diocesana per i malati di Alzheimer e le loro famiglie conclude così i festeggiamenti che ricordano i dieci anni di attività.
Un cammino già lungo che l’ha vista sempre più affermarsi da protagonista come primo centro specializzato sul territorio, ora caposcuola in termini di esperienza e proposte educative. «Qui accogliamo ospiti che si trovano a fare i conti con una malattia che non guarisce – spiega Andrea Melendugno, lo psicologo della struttura – Casa Madre Teresa si prende carico di persone non per curarle, ma per prendersene cura».
La struttura presenta due nuclei diurni con 73 persone seguite a progetto e due nuclei residenziali con 34 ospiti. «La nostra specifica caratterizzazione è di seguire le persone nelle fasi iniziali e moderate della malattia, che quindi hanno nel primo caso elevate risorse di autonomia e il lavoro è tutto nella stimolazione cognitiva strutturata; nel secondo nella gestione non farmacologica dei disturbi del comportamento, rispondendo ai loro bisogni di contesti relazionali e ambientali costruiti e specifici».
Gli ospiti arrivano a casa Madre Teresa di Calcutta dopo una diagnosi fatta nei centri per il decadimento cognitivo da medici specialisti. Il primo contatto avviene quindi con l’assistente sociale della casa. La struttura poi ha al proprio interno un medico, uno psicologo, una coordinatrice di nucleo (infermiera), un’équipe di sei educatori che cura le attività di stimolazione cognitiva, un logopedista, un fisioterapista, infermieri e operatori sociosanitari che lavorano a turni.
Il centro diurno è aperto dal lunedì al sabato dalle 7.30 alle 18.30. Gran parte dei casi proviene dal territorio dell’Ulss 16. La media di età è sui 70-75 anni, ma ci sono anche ospiti sopra i 90 e qualcuno tra i 50 e i 55. «Negli ultimi anni sono più frequenti, anche se non tantissimi, casi di quest’età – spiega Melendugno – perché si sta affinando la capacità diagnostica nei centri e quindi si intercettano prima e si riconoscono le demenze». Età diverse portano anche problematiche completamente diverse. «I 50-60enni hanno ancora figli che studiano, un lavoro, quindi sono tutte problematiche legate all’ambiente lavorativo, familiare, della rete di amicizie». E a casa Madre Teresa tutto questo è vagliato con attenzione. «Il valore aggiunto sta nella nostra mission.
Siamo una struttura di tipo privato che per poter garantire accesso a tutti fa riferimento alle liste del sistema sociosanitario regionale in convenzione. L’apporto concreto delle suore clarisse indiane, molte di loro con competenze in infermieristica, offre un contributo imprescindibile: permette di avere una presenza spirituale, ma anche concreta su progetti specifici per ciascuna persona. La nostra struttura, inoltre, rispetta la religiosità di ciascuno: vengono offerte proposte quotidiane di preghiera e il rosario, cui si può accedere liberamente. E la piccola chiesa con la messa del sabato è motore di aggregazione tra gli ospiti e le persone del territorio in un ambiente protetto. In altre chiese rischiano lo scompenso: qui avviene l’integrazione tra dentro e fuori. Spesso aspettano i loro familiari e insieme partecipano».
L’Alzheimer è definita anche la malattia della famiglia: rivoluziona tutto l’aspetto e l’assetto familiare in termini di autonomia e risorse e quindi risente anche dei cambiamenti sociali.
«I pazienti ci dicono che oggi le famiglie sono sempre più sole. A fronte dell’aumento del bisogno di assistenza c’è una diminuzione delle risorse economiche legate alle reti familiari e anche ai vicini. Oggi sono sempre più realtà mononucleari. A questo si aggiunge che la malattia spaventa e allontana, perché molto difficile da gestire».
Per lo psicologo lavorare a casa Madre Teresa è un’opportunità in questo senso. «Ha dato risposta a un grosso tormento che mi portavo dentro. Prima di arrivare qui prestavo servizio in centri di diagnosi in cui si rivedevano le persone a distanza di mesi e la domanda che spesso ci veniva lanciata era: “Adesso cosa facciamo?”. Stare qui per me significa sentirmi in grado di fare qualcosa per persone per le quali sembrerebbe non ci fosse nulla da fare. Invece possiamo fare tantissimo se vogliamo accompagnarle nel percorso tortuoso della demenza. Qui ho toccato con mano che da soli non si basta: la malattia è talmente complessa che non si potrebbe fare quello che si fa, se non supportati da un’équipe solida formata, motivata e seria, con cui insieme superare anche il senso di frustrazione. Il nostro lavoro è una sfida continua. Ai miei collaboratori dico che dobbiamo pensarci come “ricercatori d’oro”: in alcune persone le pepite sono grandi e si fa presto a trovarle; in altre devi scavare molta sabbia prima di trovarne anche una piccola. Ma la pagliuzza ripaga sempre».