Ritorna l’incubo dell’atomica. I vescovi coreani: "Fermiamoci. Sarebbe una guerra senza vincitori"
L'unanime condanna della comunità internazionale non ferma l'escalation nordcoreana, così come inutile è stata anche la firma del nuovo trattato anti-nucleare siglato, lo scorso 7 luglio, dalle Nazioni Unite. L'appello della chiesa coreana: “Tutti si devono fermare. Perché se scoppia una guerra nucleare, non ci saranno vincitori. Saremo tutti perdenti. Con armi così sofisticate, sarà la distruzione totale”.
Rimane molto alta la tensione sulla penisola coreana.
In particolare dopo il 3 settembre, quando la Corea del Nord ha effettuato il sesto test atomico, facendo detonare una bomba all'idrogeno di potenza “senza precedenti” che, potenzialmente, potrebbe essere montata su missili balistici intercontinentali. Ai messaggi trionfalistici di Pyongyang che inneggiavano al “successo completo” dell'esperimento portato a termine, con tanto di annuncio diramato dalla televisione di regime, si sono aggiunte le immagini diffuse dai media coreani: con il leader Kim Jong Un immortalato davanti a quella che è stata ribattezzata come una nuova bomba all’idrogeno: un ordigno potente al punto tale da generare nel nordest del paese un terremoto di magnitudo 6.3 seguito da altre scosse, che potrebbe essere fatto esplodere anche a grandi altitudini.
Tempestive sono state le reazioni della comunità internazionale al test con un rimbalzare di dichiarazioni: dal sintetico «Vedremo», pronunciato in prima battuta da Donald Trump, alle reazioni di Cina e Russia, fino al repentino pronunciarsi dell’Onu: «Il test nucleare è profondamente destabilizzante». Proprio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite gli Stati Uniti hanno chiesto di applicare nei confronti di Pyongyang il livello più alto di sanzioni.
L’esplosione è stata stimata in 120 chilotoni (dove un chilotone equivale alla potenza di deflagrazione di mille tonnellate di tritolo). Il recente esperimento di Kim Jong Un è riuscito a moltiplicare per quasi dieci volte i quindici chilotoni di “Little boy”, la prima bomba atomica della storia umana. Alle 8.16 e 8 secondi del 6 agosto 1945 – tra i due ponti di Aioi e Motoyasu, accanto all’imponente edificio della Camera di promozione industriale di cui tuttora sopravvive lo scheletro – fu sganciata dal bombardiere americano Enola Gay sulla città giapponese di Hiroshima, radendola al suolo e spazzando via tra le 100 e le 200 mila persone.
Non è trascorso nemmeno un mese dall’anniversario, a settantadue primavere dalla tragica vicenda.
E anche quest’anno (in un clima già di tensione con lo sguardo rivolto ai vicini confini coreani) il sindaco della cittadina giapponese, Kazumi Matsui, ha voluto restituire voce ai racconti dei sopravvissuti al disastro nucleare, cittadini ormai ottantenni, in una partecipata cerimonia di commemorazione.
Il 72° anniversario si è celebrato a un mese dalla firma del nuovo trattato anti-nucleare siglato, lo scorso 7 luglio, dalle Nazioni Unite.
Lo strumento, utilizzato durante la guerra fredda come arma di deterrenza, rimane tuttora nelle mani di paesi quali Israele, India, Pakistan, Corea del Nord (appunto) e Iran per finalità di difesa, intimidazione e rivendicazione politica. Tanto è che oggi nel mondo esistono ancora 16 mila testate nucleari: numero fin troppo elevato rispetto alla speranza di vedere distrutto l’ultimo ordigno nucleare. Quando ciò accadrà, la fiamma che arde nel Memorial peace park di Hiroshima potrà finalmente smettere di ardere.
Intanto, dall’altra parte del mare del Giappone, il braccio di ferro e della provocazione (diretta in particolare agli Stati Uniti), pare non essere destinato a finire.
L’allerta rimane alta: trascorse quarantotto ore dal sesto test nucleare eseguito da Pyongyang e a 24 ore dalla simulazione di attacco compiuta da Seul, fonti dell'agenzia Asia business daily, di fatto non smentite dal governo sudcoreano, riferiscono che un missile intercontinentale è stato spostato verso la costa occidentale nordcoreana. Posizione strategica per l’ennesimo esperimento balistico messo in atto dagli scienziati del dittatore: i lanci delle truppe del regime avrebbero infatti tutte le potenzialità per raggiungere il territorio americano o le forze navali americane dislocate nel Pacifico.
L’appello della chiesa coreana
“Tutti si devono fermare. Perché se scoppia una guerra nucleare, non ci saranno vincitori. Saremo tutti perdenti. Con armi così sofisticate, sarà la distruzione totale”.
È monsignor Lazzaro You Heung-sik, vescovo di Daejeon e presidente della Commissione “Giustizia e pace” della Conferenza episcopale coreana a parlare. Arrivato da poco a Roma, sulla crisi coreana, che in questi giorni sta tenendo il mondo con il fiato sospeso, non nasconde la sua preoccupazione: “Il popolo coreano è abituato a convivere con questa minaccia ormai da 70 anni, da quando la Corea è divisa in due. Purtroppo i governi passati e in genere il mondo politico hanno sfruttato questa situazione per fini personali. Ma questa volta la situazione è diversa. Ciò che preoccupa è l’uso da parte dei leader di Stato di un linguaggio forte, intriso di odio, per cui non si sa che cosa può accadere, si vive in una sospensione. Siamo preoccupati ma ho fede che il Signore ci darà la forza, indicherà la strada, e noi tutti troveremo le vie giuste per instaurare un nuovo dialogo e andare avanti”.
Il vescovo che per quattro volte è riuscito a oltrepassare la linea di frontiera e raggiungere Pyongyang spiega che “la Corea del Nord si sente messa all’angolo e isolata dalla politica internazionale e la reazione a questo isolamento è la bomba atomica che garantisce loro una difesa, una via di sicurezza”.
Ma “che cosa ci guadagna la Corea del Nord a lanciare un missile?”, si chiede mons. You.
“Niente. Se loro lanciano il missile, gli americani non rimarranno con le mani in mano, risponderanno e sarà la distruzione totale”.