Dopo gli Usa una nuova corsa al riarmo nel mondo? Spese militari sempre più in crescita
Dopo l'annuncio di Donald Trump di voler aumentare gli investimenti bellici di 54 miliardi in un anno, il mondo teme una nuova corsa agli armamenti in tutti i Paesi. Russia e Cina hanno già reagito. Ma qual è la situazione effettiva della spesa militare nel mondo e quali i rischi possibili?
L'amministrazione Trump ha annunciato di voler aumentare le spese militari degli Stati Uniti di 54 miliardi in un anno (+10%), "per mantenere l'America sicura" e "se necessario, per combattere e vincere".
Gli Usa sono già il Paese con il più alto investimento nella difesa, un terzo di quanto spendono tutte le nazioni messe insieme. E, guarda caso, sono il principale esportatore di armi (33%) e il Paese che possiede più testate nucleari, circa 7.000.
Se l'America rilancia gli investimenti bellici si rischia una escalation anche nel resto del mondo, con armi sempre più pericolose e sofisticate?
Immediata la reazione della Russia, con osservatori che paventano scenari da guerra fredda. Anche la Cina ha annunciato una crescita della spesa per la difesa, pari all’1,3 per cento del Pil previsto per il 2017.
Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2017 Papa Francesco ha invitato chiaramente a seguire "la via della pace: non quella proclamata a parole ma di fatto negata perseguendo strategie di dominio, supportate da scandalose spese per gli armamenti mentre tante persone sono prive del necessario per vivere".
La corsa agli armamenti in realtà è già iniziata da tempo, come dimostrano le stime più recenti.
Le spese militari mondiali durante il 2015 sono infatti cresciute dell'1% superando i 1.760 miliardi di dollari, pari al 2,3% del Pil mondiale (rapporto Sipri). In testa alla classifica sempre gli Stati Uniti, che da soli investono poco meno di 600 miliardi di dollari e contribuiscono al 36% della spesa complessiva, seguiti da Cina (13%), Arabia Saudita (5,2%), Russia (4%) e dagli altri 165 Paesi che si dividono il restante 19%.
L'Arabia Saudita è cresciuta del 5,7%, con una spesa complessiva di 87 miliardi di dollari, dovuta agli investimenti diretti per la guerra in Yemen, che secondo la Rete italiana per il disarmo coinvolgono anche acquisti di bombe italiane. La Russia ha incrementato la spesa del 7,5% (66 miliardi di dollari totali).
Nel 2015 l'export militare mondiale ha costituito un business di 28.626 miliardi di dollari (fonte Iriad), in crescita rispetto all'anno precedente (28.070).
Secondo gli ultimi dati disponibili (Sipri, 2016) riferiti al 2011-2015 i principali esportatori d'armi sono, nell'ordine: Usa (33%), Russia (25%), Cina (6%), Francia (6%), Germania (5%), Gran Bretagna (4%), Spagna (3%), Italia (3%), Ucraina (3%), Olanda (2%). Tutti gli altri Paesi del mondo coprono il restante 10%.
E l'Italia?
Nel nostro Paese la spesa militare è di poco inferiore ai 24 miliardi di dollari, siamo al 12° posto a livello mondiale. Siamo però il principale esportatore di armi "comuni" (cioè non militari, armi leggere come pistole e rivoltelle) pari a 307 milioni di euro. Ha però fatto discutere tempo fa la vendita di bombe aeree autorizzate dal governo all'Arabia Saudita, con voli-cargo partiti dall'aeroporto di Cagliari-Elmas. Tutto ciò, nonostante la legge 185/90 vieti di vendere armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani.
In Italia le spese per la difesa rappresentano l'1,18% del Pil, pari a circa 23 miliardi, con un leggero incremento, mentre la Nato chiede ai Paesi alleati di raggiungere il 2%. Di recente il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha lanciato un piano di riforma delle Forze armate che prevede, tra l'altro, di ridurre gli organici di 40mila militari e 10mila civili, investendo di più sui giovani.
L'arsenale nucleare
Capitolo a parte è poi quello relativo alle armi nucleari. Gli Usa possiedono da soli 7.000 testate nucleari, la Russia 7.290, Francia 300, Cina 260, Regno Unito 215, Pakistan e India rispettivamente un centinaio, Israele 80, Corea del nord 10.
Sul territorio italiano, nelle basi Usa di Ghedi e Aviano, sono dislocate 70 testate nucleari americane.
Il 27 marzo prossimo le Nazioni Unite dovrebbero tornare a discutere sul progetto di abolizione delle armi nucleari - 123 nazioni lo scorso 23 ottobre hanno votato a favore della messa al bando - l’Italia invece si è opposta.
Le reazioni
“Scandalizzati, indignati e preoccupati per questa realtà angosciante e il rischio di ripetersi di scenari da guerra fredda”: così reagisce don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia.
“La spesa militare in molti Paesi è già molto alta - afferma -. Il rischio di una escalation con la Russia ci riporta indietro di anni”.
Secondo don Sacco il presidente Trump “è abile a cavalcare l’opinione pubblica, offrendo una illusione di sicurezza. Al contrario così si aumenta l’insicurezza globale, perché si vedrà sempre più l’altro come un nemico”. Don Sacco chiede alla comunità cattolica “un sussulto di indignazione”.
Secondo Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, Trump ha preso questa decisione per motivi di "grande business” e "volontà di egemonia".
“Le super-armi, come dimostra la storia, non hanno mai garantito la sicurezza. Semmai dipende dagli accordi tra Paesi di natura politica ed economica - osserva -. Il rischio di una guerra nucleare è lontano e speriamo rimanga tale: nessuna superpotenza è in grado di gestire gli aiuti umanitari in un post-conflitto nucleare, quindi sarebbe un suicidio”.
I pericoli vengono semmai dal terrorismo internazionale, "da combattere con l'intelligence" e relative, possibili, azioni di hackeraggio sui sistemi di difesa dei governi.