A(r)miamo le guerre del mondo
Lo scorso anno l'Italia ha triplicato le esportazioni di armi, per un valore superiore agli 8 miliardi di euro. Tornano alla memoria le parole pronunciate dal papa a Redipuglia, il 13 settembre 2014: «Anche oggi le vittime sono tante... Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!».
La notizia è passata quasi in sordina nei sommari dei telegiornali e nelle prime pagine dei quotidiani, eppure per tante ragioni avrebbe meritato ben altra attenzione.
Forse, vogliamo come suol dirsi “pensare positivo”, se nessuno ha preso il microfono o rilanciato dichiarazioni trionfalistiche di fronte agli straordinari risultati conseguiti dal nostro export nel 2015 è perché rimane sempre un po’ di pudore – se non proprio di autentica vergogna – quando il Made in Italy che piace al mondo non è quello dell’alta moda ma quello dei razzi, degli agenti chimici e tossici, delle pistole, degli esplosivi, degli elicotteri d’assalto e perfino dei siluri. C’è tutto questo, oltre alla sofisticata tecnologia delle attrezzature elettroniche, nel ricco paniere dell’industria bellica italiana, che lo scorso anno ha visto triplicare il valore delle esportazioni.
Ma le armi servono a difendersi dai terroristi e a proteggere le istituzioni democratiche, dirà qualcuno.
E infatti, a leggere la relazione che la presidenza del consiglio dei ministri ha inviato al Senato lo scorso 18 aprile, ecco una lunga lista di campioni della democrazia e della libertà che l’industria bellica italiana sostiene vendendo armi per un valore di 8 miliardi e 200 milioni di euro.
C’è la Turchia, affamata di elicotteri T129 per la sua guerra a intermittenza con i curdi, al di qua e al di là del confine con la Siria, e pazienza se il suo presidente fa incarcerare i giornalisti che denunciano il commercio d’armi clandestino con l’Isis.
C’è il Pakistan che per anni è stato la retrovia e il rifugio dei talebani, in un intreccio inestricabile di complicità.
C’è l’Arabia Saudita, che con le armi italiane combatte la ribellione sciita nel vicino Yemen, e c’è perfino l’Iraq, paese martoriato da mille conflitti, in cui vendiamo armi a un governo legittimo col fondato sospetto che poi finiscano in altre mani.
Ma il capitalismo si basa sulla libertà di impresa. Mica possiamo impedire alle imprese private di fare affari e comunque se non le vendiamo noi lo faranno i nostri concorrenti, dirà qualcun altro.
Peccato che poi, a scorrere la lista delle grandi aziende di armamenti e supporti logistici, si scopre che la maggior parte sono di proprietà o partecipate dal gruppo Finmeccanica. Ovvero un colosso pubblico, di proprietà dello stato e che allo stato garantisce laute entrate; un gigante che dal prossimo anno abbiamo deciso di ribattezzare Leonardo, il genio italico per eccellenza, messo spudoratamente al servizio della progettazione e vendita di armi destinate ad alimentare altri conflitti che produrranno – volenti o nolenti – altra povertà, altra emigrazione, altre tensioni.
Più volte papa Francesco ha ricordato la stretta connessione tra il mercato degli armamenti e l’origine delle guerre, secondo una perversa logica a spirale: tu ti armi, allora mi armo anch’io e così gli stock di armamenti crescono senza che nulla cambi negli equilibri.
Così come è evidente la stretta connessione tra il clima di “guerra globale” in cui siamo immersi e la crescita a due cifre delle quotazioni di borsa dei grandi gruppi industriali che producono armi: ultimo caso in ordine di tempo, l’impennata registrata subito dopo gli attentati di Parigi.
E a nessuno forse sfuggirà che più vendiamo armi ai paesi poveri, più cresce l’indebitamento nei confronti dell’Occidente e meno risorse rimangono disponibili nei loro già magri bilanci per la lotta alla povertà, alla mortalità infantile, alle disuguaglianze sociali.
C’è bisogno di un genio per comprendere tutto questo? Sicuramente no.
Ma forse c’è proprio bisogno della genialità di Leonardo per trovare il modo di chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità del nostro paese nel perpetuare un modello di “sviluppo” umanamente inaccettabile: perché quando si fanno grassi affari ad armarle, si finisce anche per “amarle” le guerre, o perlomeno per tollerarle di buon grado.
Il 24 maggio il presidente della repubblica Mattarella sarà ad Asiago, nel giorno in cui l’altopiano ricorda i cento anni dalla “spedizione punitiva” austriaca con la precipitosa fuga della popolazione dai suoi paesi. Sentiremo riecheggiare, ne siamo sicuri, parole di condanna per l’insensatezza della guerra.
Può darsi allora che a qualcuno tornino alla memoria quelle pronunciate dal papa a Redipuglia, il 13 settembre 2014.
«Anche oggi le vittime sono tante... Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”».
Ecco, appunto. A noi importa. E vorremmo che l’Italia avesse il coraggio di rinunciare pubblicamente all’industria delle armi.
Non cambierebbe il mondo, forse, ma inizierebbe a cambiare noi stessi. In meglio.