Un lungo cammino, da fare insieme
La chiesa di Padova è vicina alle popolazioni terremotate delle Marche e del Lazio, si raccoglie in preghiera per le vittime e per quanti si trovano ad aver perso affetti, beni, casa, attività, e invita tutte le comunità parrocchiali a unirsi, domenica 18 settembre, alla colletta nazionale promossa dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana in concomitanza con il 26° Congresso eucaristico nazionale, come frutto della carità che da esso deriva e di partecipazione di tutti ai bisogni concreti delle popolazioni.
Servono fondi, ma serve soprattutto l'impegno a non lasciare sole le vittime del sisma nella lunga stagione della ricostruzione.
È trascorso meno di un mese dal tragico terremoto che ha sconvolto il Centro Italia.
Un tempo breve, brevissimo se ci mettiamo nei panni di una popolazione che dovrà affrontare i primi rigori dell’autunno in tenda e forse attendere la primavera per avere a disposizione le famose “casette in legno” che dovrebbero rappresentare la prima risposta all’emergenza abitativa, il primo passo di un ambizioso progetto di ricostruzione che salvaguardi luoghi e identità, facendo memoria dell’infelice esperienza dell’Aquila e delle sue “new town”.
Ma poche settimane sono un tempo già lunghissimo per i canoni dell’informazione, perlomeno di quella che televisioni e quotidiani ci propongono.
E così, finiti i racconti scritti quasi in tempo reale, finito lo sbarco in grande stile di inviati e telecamere, il rischio che anche su questa tragedia cali una densa cappa di silenzio si va facendo più concreto che mai. Negli ultimi giorni, fatta salva l’attenzione per la riapertura della scuola di Amatrice, l’unica notizia capace di conquistarsi spazio nelle prime pagine dei giornali è stata la decisione del comune di querelare Charlie Hebdo, il giornale satirico francese a suo tempo vittima dell’odio integralista, per le sue vignette volgari e insultanti sul terremoto.
Per il resto, qualche notizia sull’andamento delle indagini e poco, quasi nulla, d’altro. Come se la vita di quasi cinquemila persone sfollate, come se l’impegno di tanti volontari e della Protezione civile, non valessero più.
Drammi familiari e storie di encomiabile generosità già “scadute”, per i meccanismi di un’informazione ai cui occhi fa notizia la scossa demolitrice, ma non lo sciame sismico che proseguirà per mesi, forse per anni, segnando la vita di quelle comunità. Eppure – lo ricordava il vescovo di Rieti mons. Pompili celebrando messa in cattedrale venerdì 9 settembre – ad Amatrice, ad Accumoli, nei paesi e nelle frazioni sconvolte dal sisma il tempo si è come fermato: «Il terremoto non è passato ma è in mezzo a noi. Generazioni spazzate via da 80 secondi, la vita cambiata in un attimo. Tutto è stato annullato. Nulla è più come prima. Accompagnare significa stare accanto, muoversi al passo degli sfollati che pagano il prezzo più alto, condividere il tratto di strada verso la collocazione in moduli abitativi».
La colletta che questa domenica viene raccolta in tutte le chiese d’Italia non ha solo un valore economico.
È anche, e forse soprattutto, il segno di una vicinanza che non vuole risolversi in una ondata emotiva, ma abbia il passo lento e costante di chi vuol fare insieme un lungo tratto di strada.
In queste settimane abbiamo già visto fiorire nelle nostre comunità parrocchiali le più svariate iniziative di raccolta fondi. Non c’è sagra, forse, che non abbia messo nel suo programma un piatto all’amatriciana o una cena per i terremotati.
Ancora una volta, sono scelte che valgono per il contributo che possono offrire alla causa della ricostruzione, ma valgono soprattutto perché ci ricordano che non è possibile fare festa voltando lo sguardo dall’altra parte.
Con questo spirito possiamo fare della colletta nazionale non un punto d’arrivo, non la conclusione felice di un impegno della chiesa italiana scattato fin dalle prime ore dell’emergenza, ma un ulteriore punto di partenza per l’impegno che ci attende. In cosa concretizzarlo? Un esempio concreto appartiene già alla migliore storia del Novecento: sono i gemellaggi che, esattamente quarant’anni fa, legarono le diocesi italiane con i paesi del Friuli devastati dal terremoto.
C’è una data da appuntare nella memoria, perché si lega al ricordo di due grandi uomini della nostra terra.
Il 6 maggio 1976 a Venezia, in un incontro presieduto dal patriarca Albino Luciani a cui prese parte anche il segretario generale di Caritas italiana mons. Giuseppe Pasini, le Caritas del Triveneto diedero il via a un’esperienza capace di coinvolgere alla fine 81 diocesi.
Ciascuna si impegnò a sostenere una parrocchia per almeno cinque anni, un impegno enorme che vide alla fine mobilitati più di 15 mila volontari e grazie al quale si realizzarono 67 centri di comunità, primi luoghi di incontro e di aggregazione per la gente.
Ecco il modello che come chiesa possiamo e dobbiamo oggi rilanciare.
La ricostruzione è una sfida enorme, ancor più quando si parla di territori periferici e disagevoli, di piccoli paesi, di comunità ristrette.
Se l’attenzione dei media sta già venendo meno, più forte deve allora farsi il nostro impegno: a sostenere, a raccontare, a condividere.
Se il Friuli rimane come un modello di ricostruzione esemplare, forse una ragione sta anche in quella catena che ha fatto sentire le comunità meno sole, che ha contribuito a tenere accesa la luce della speranza, che ha fatto di un dramma locale una questione nazionale.
Lo dobbiamo anche ad Amatrice: dove nulla sarà più come prima, ma dove c’è una nuova storia da costruire. Insieme.