L'epopea di don Giovanni Rossi, il cappellano militare medaglia d'argento sul campo
Una valigetta di lettere in cui i parenti dei suoi soldati gli chiedevano «notizie di vita o di morte», lasciata al suo successore nella parrocchia di Roncajette e finalmente aperta: è questa “scoperta” all’origine della mostra itinerante dedicata al cappellano militare padovano, don Giovanni Rossi, che nel centenario della grande guerra (e nel cinquantenario della sua morte, avvenuta il 7 gennaio del 1967) è stata allestita nella sua terra d’origine, l’altopiano di Asiago, e in quella d’adozione, il comune di Ponte San Nicolò.
Don Rossi era infatti nato a Sasso di Asiago il 1° luglio 1886 da una famiglia che emigrava stagionalmente a far carbone in Austria o in Germania.
Il giovane Giovanni entrò in seminario a 16 anni e divenne sacerdote nel 1912. Fu chiamato alle armi per sei mesi, durante la guerra libica e nel maggio 1915, dopo essere stato vicerettore del collegio di Thiene, venne richiamato come sergente della quinta compagnia di sanità, prestando sevizio nell’ospedaletto di campo di Forno di Zoldo.
Inoltrata la domanda di cappellano militare, l’11 maggio 1916 ottenne la nomina come cappellano del 1° reggimento granatieri di Sardegna e subito inviato in prima linea.
Siamo nel periodo della Strafexpedition, quando i granatieri si immolarono sul Cengio per non permettere agli austriaci di mettere piede in pianura. Subito dopo il reggimento fu inviato sul fronte carsico dove partecipò alla presa del San Michele dal 9 al 12 agosto, e poi alle azioni di Quota 212, Vallone di Doberdò, Nad Logem, Welick, Kribak, Oppacchiasella, Quota 241 e 219 sopra Lauriano di fronte all’Hermada e a Querceto dove nel maggio 1917 meritò la medaglia d’argento.
Il 18 agosto 1916 annota sul diario: «Bombardamento intenso nella Ermada dello Stol. Rimango a Valletta Catanzaro, coll’intenzione di salire a Dolina de Lys la sera. Domani è festa, voglio celebrare alle 4 e poi partire. Dormo poco, e riposo meno. Celebro la mattina alle 4 e alle 5 mi accingo a partire. Comincio a tossire e lacrimare: sono i gas – aspetto 2 ore e parto alle 7 e 30. (...) Il bombardamento è spaventevole. Eppure, in un momento di quasi diminuzione, parto e via. È spaventoso. Le trincee di prima linea sconvolte, sotto le mie mani cadaveri sfracellati del genio e sotto ai quali trovo qualche altro vivo, instupidito, intontito. Corro alla Dolina de Lys, non si può entrare, è incendiata. Saltano le bombe. Il colonnello è ferito e corro sopra i morti alla dolina Bono. Respiro. Continua il bombardamento, mi è impossibile uscire. Quali battaglie! Quali barbarie! Che stragi! Venne la sera: il bombardamento continuava. Confusione per l’acqua. Feriti a morte».
Il 31 ottobre, dopo Caporetto, don Rossi venne fatto prigioniero a Flambro, presso Codroipo, e trasferito nel campo di prigionia ungherese di Nagymegyer dove rimase fino alla fine della guerra.
«Dodici mesi più tristi di una guerra, più dolorosi di una battaglia» ricorda. Venne assegnato all’ospedale di tappa di Padova per assistere i detenuti delle carceri militari e dell’ospedale di Santa Giustina.
Congedato (nonostante il suo desiderio di rimanere con i granatieri) verrà inviato come cappellano a Peraga, a San Marco di Camposampiero e ad Asiago, prima di diventare economo spirituale e quindi parroco di Roncajette, dove rimarrà 42 anni.