Piccole grandi storie di sacerdoti tra le trincee della Grande guerra
«La storianon si finisce mai di scrivere!», esordisce mons. Santo Marcianò, arcivescovo ordinario militare per l’Italia, nella prefazione del ponderoso volume di Vittorio Pignoloni, Cappellani militari e preti-soldato in prima linea nella Grande Guerra. Diari, relazioni, elenchi - 1915-1919 (San Paolo, pp 494, euro 32,00). Lo riprova questa sontuosa pubblicazione che ha il pregio di riportare a galla una lunga teoria di storie, anche minime, legate all’opera diuturna dei cappellani militari assegnati sia ai reparti sulla linea del fuoco sia alle strutture militari di prima linea o di retrovia.
Spulciando, tra una novantina di vicende che l’autore rende note. ve ne sono un paio che riguardano molto da vicino la nostra diocesi.
La prima, sintomatica delle inaudite difficoltà che i sacerdoti talora incontrarono nell’esercizio del loro ministero in tempo di guerra, poggia su una denuncia datata 5 febbraio 1916, indirizzata all’ufficio di Roma del vescovo castrense.
Chi scrive da Montegrotto è un prete soldato, tale don Paolo Petrelli, addetto all’assistenza dei soldati degenti nei vari stabilimenti termali trasformati in ospedale, che a ragione si rammarica di non poter svolgere la propria missione perché
«il mio capo reparto, medico borghese del paese ove siamo, nemico acerrimo dell’arciprete, propagandista d’immoralità, mi ha dato e mi dà filo da torcere con tutti i suoi discorsi, col dileggiare i malati per la loro fede, i loro oggetti di pietà, con tanta manifestazione del suo spirito settario. È giunto anche a sequestrare la piccola “vita di Gesù” per i soldati e a minacciare di togliere tutti i libri di devozione».
Come non bastasse, un perentorio ordine del giorno vietava ai sacerdoti in grigioverde di uscire ogni mattina per recarsi a celebrare le funzioni religiose adducendo il sovvertimento «del regolare andamento del servizio», per cui essi avrebbero dovuto di volta in volta, di caso in caso munirsi del necessario lascia passare.
«Così – denuncia don Petrelli – subendo anche questa umiliazione, io ho il permesso ogni due giorni, sino ad ora, e se il Signore non provvede presto si teme di non celebrare più». A margine della relazione, il vescovo castrense Bartolomasi annota di essere «vivamente impressionato» e invita a provvedere alla soluzione di un caso così spinoso, tuttavia le carte consultate non tramandano come andò a finire.
Qualche miglio più a sud, sulla riva sinistra del Bacchiglione, a Gorgo, don Silvio Lovo, classe 1882, cappellano militare all’ospedale di riserva della città del Santo annota: «Avevo predicato le 40 ore nella parrocchia di Gorgo con grande concorso di soldati che si trovavano a riposo. Avevo raccomandato loro di confessarsi alla sera per poter fare al mattino in tempo la santa comunione ed essere pronti per l’ora del servizio».
Sorpresa delle sorprese, un soldato si presentò soltanto alle sei e mezza del pomeriggio chiedendo l’eucarestia, e a stomaco vuoto dal giorno precedente perché «stamane – incalza – mi sono alzato prima della sveglia per venire alla comunione, la sentinella dell’accampamento non mi volle lasciar passare. Dissi lo scopo, che alla sveglia sarei ritornato, che la chiesa era a 20 passi, pregai, insistei», ma inutilmente.
Così il fantaccino mise da parte il caffè, all’adunata prese lo zaino, fece la marcia con le esercitazioni, mise da parte anche il rancio il che non gli impedì di prendere parte anche agli esercizi del pomeriggio e all’ora della libera uscita si diresse in chiesa. «Quasi meravigliato della meraviglia del sacerdote, replicò: Eh! Padre si fanno sacrifici più grandi per gli uomini».
Di grande interesse l’appendice del volume che, senza pretesa di completezza alcuna, offre un elenco di 2.070 cappellani militari e 600 aiuto-cappellani.
Tra loro numerosi rappresentanti del clero secolare diocesano come don Gianmaria Bianchin, don Giacomo Fabris, don Vittorio De Zanche, don Pietro Sartori (per citare i primi che sono balzati all’occhio) oppure appartenenti a congregazioni presenti nel Padovano come il monaco benedettino della badia di Praglia don Emanuele Caronti, di Subiaco, cappellano del 48° bersaglieri, che venne fatto prigioniero nella rotta di Caporetto e internato nel campo ungherese di Csot bei Papa.
Ancora, che hanno lasciato traccia nei registri canonici delle nostre parrocchie come il cappuccino Giovanni Battista Silvani, di Massa, cappellano del 209° reggimento fanteria, oppure il redentorista Giuseppe Perrotta di Roma, cappellano del 60°, che ebbero il caso di amministrare il battesimo e celebrare le esequie a Montemerlo dove i loro reparti erano accantonati.