Venezia78: “Competencia Oficial” del duo Duprat-Cohn, “Il buco” di Frammartino e “The Lost Daughter” della Gyllenhaal
In gara torna Penélope Cruz, che dopo il film di Almodóvar è protagonista della commedia targata Spagna-Argentina “Competencia Oficial” dei registi Gaston Duprat e Mariano Cohn, un’istantanea provocatoria e dissacrante del mondo del cinema odierno. Nel cast protagonisti anche Antonio Banderas e Oscar Martinez: irresistibili! Svelato anche il secondo titolo italiano in Competizione, “Il buco” di Michelangelo Frammartino, che si confronta con l’impresa di un gruppo di speleologi nell’Italia del boom economico. E sempre alla Mostra, dalla programmazione di ieri, “The Lost Daughter”, film che segna l’esordio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal
Quarto giorno alla 78ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. In gara torna Penélope Cruz, che dopo il film di Almodóvar è protagonista della commedia targata Spagna-Argentina “Competencia Oficial” dei registi Gaston Duprat e Mariano Cohn, un’istantanea provocatoria e dissacrante del mondo del cinema odierno. Nel cast protagonisti anche Antonio Banderas e Oscar Martinez: irresistibili! Svelato anche il secondo titolo italiano in Competizione, “Il buco” di Michelangelo Frammartino, che si confronta con l’impresa di un gruppo di speleologi nell’Italia del boom economico. E sempre alla Mostra, dalla programmazione di ieri, “The Lost Daughter”, film che segna l’esordio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal. Il punto Cnvf-Sir dal Lido di Venezia, sabato 4 settembre.
“Competencia Oficial”
A Venezia Gaston Duprat e Mariano Cohn avevano lasciato il segno già nel 2016 con il film “Il cittadino illustre” (“El ciudadano ilustre”), Coppa Volpi al protagonista Oscar Martinez. A distanza di cinque anni i due registi-sceneggiatori argentini tornano con un progetto altrettanto riuscito e forse più ambizioso. Parliamo di “Competencia Oficial”, omaggio e satira, a tratti feroce, sul mondo del cinema e il suo diviso. Un’opera che poggia in maniera solida su tre interpreti di grande mestiere: Penélope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martinez. La storia: Spagna oggi. Un milionario ottantenne, mosso dal desiderio di lasciare un segno concreto alle generazioni future, decide di finanziare un film ingaggiando una delle registe più acclamate del momento, Lola Cuevas (Cruz). L’autrice dà il via al processo creativo coinvolgendo come interpreti principali due star di primo piano, il pluripremiato Felix Rivero (Banderas), che strizza l’occhio a Hollywood, e il più tradizionale Ivan Torres (Martinez), che si divide tra palcoscenico e insegnamento. Iniziano così le letture del copione, la scelta dei costumi e le prove generali, contestualmente crescono le rivalità tra i due attori, come pure le tensioni con la regista… Non si tratta banalmente di cinema nel cinema, ossia di un film che ne esplora il dietro le quinte. “Competencia Oficial” mette a fuoco soprattutto l’incontro-scontro tra attori e nel contempo tra attori e regista. L’opera di Duprat-Cohn corre lungo un binario assolutamente frizzante e brillante, un’analisi chirurgica dell’alchimia produttiva di un film; scena dopo scena la carica ironica si tramuta in uno sguardo tagliente su rivalità attoriali, divismo capriccioso e crisi ideative, per approdare verso un finale intriso di umorismo nero. Racconto nell’insieme originale e di certo godibile, esaltato da attori in stato di grazia. Così dichiara su “Competencia Oficial” Massimo Giraldi, presidente della Commissione film CEI nonché giurato Signis al Festival: “Incentrato su un umorismo corrosivo, che ricorda tanto lo stile cinico tipico di Woody Allen, il film ha il coraggio di indagare anche il rapporto del cinema con il suo pubblico, spesso determinante nel decretare successo o flop al botteghino. In quest’ottica l’opera di Duprat-Cohn, anche se nel complesso risulti accattivante e ben scritta, sconta nel finale una certa superficialità narrativa, tanto da apparire sottotono nell’individuare la chiusura”. Dal punto di vista pastorale “Competencia Oficial” è da valutare come consigliabile, problematico e per dibattiti.
“Il buco”
Era dal 2010 che il regista milanese Michelangelo Frammartino non dirigeva un lungometraggio. Dopo l’opera prima “Il dono” del 2003 e il lodato “Le quattro volte” del 2010, ecco arrivare in concorso a Venezia78 “Il buco”, film che muovendosi tra inchiesta e poesia ci offre uno spaccato dell’Italia anni ’60, nel pieno del boom economico, un Paese diviso tra mito del progresso e una realtà contadina incapace di cambiamento. Siamo nella Calabria del 1961, all’interno dell’altopiano del Pollino, una squadra di speleologi giunge sul territorio per immergersi nelle pieghe della terra alla scoperta della grotta del Bifurto, a quasi 700 metri di profondità. L’opera di Frammartino si gioca dunque tutta sulla contrapposizione tra progresso e tradizione, tra mito dell’uomo costruttore, che celebra l’impresa del grattacielo Pirelli a Milano, e quello che si addentra nelle profondità del sottosuolo in cerca di conoscenza e memoria del passato. A questo si aggiunge anche lo sguardo lirico del regista sulla natura e i suoi ritmi (attraversino l’istantanea di un vecchio pastore), che vanno piano piano sbiadendo; una riflessione che ricorda quella di Pier Paolo Pasolini quando mette in guardia dalla fine della civiltà contadina millenaria, custode delle tradizione. “Il buco” ha un respiro totalmente contemplativo, che di certo affascina per bellezza visiva, ma che a ben vedere incontra anche delle perplessità sull’opera in sé, bloccata in una lentezza a tratti respingente. Sul film ha dichiarato sempre Massimo Giraldi: “Ogni opera di Frammartino è una scommessa sulla sua capacità di proporre forme innovative di cinema sfidando lo spettatore a recepirle come tali. Il linguaggio antropologico che mette in campo sembra richiamare, e non poco, la poetica di Ermanno Olmi e di Franco Piavoli. Ferma restando la difficoltà di accogliere un cinema come quello di Frammartino, ne resta viva tuttavia la lezione da un lato di un coraggio produttivo fuori dal comune e dall’altro di una modalità di racconto sociale densa di riflessione”. Dal punto di vista pastorale “Il buco” è consigliabile, poetico e per dibattiti.
“The Lost Daughter”
È ancora febbre da Ferrante. Dopo “L’amore molesto”, “I giorni dell’abbandono” e la tetralogia “L’amica geniale”, viene adattato per lo schermo un altro romanzo della misteriosa scrittrice italiana: “La figlia oscura”. A dirigerlo è l’attrice statunitense Maggie Gyllenhaal, al suo esordio dietro alla macchina da presa. Rimescolando un po’ le ascisse e le ordinate del racconto, la storia si svolge nel corso di una vacanza estiva in Grecia. Su un’isola decide di trascorrere dei giorni di tranquillità la quasi cinquantenne Leda Caruso, accademica britannica specializzata in letteratura italiana. L’incontro-scontro con una famiglia di vacanzieri rumorosa e ingombrante la pone sotto pressione, aprendo delle ferite dal suo passato… Avendo a disposizione un’attrice fuoriclasse come il premio Oscar Olivia Colman, la regista Gyllenhaal prova a indagare la maternità e le sue fratture, tratteggiando i sentimenti d’amore bruciante, di atavica intensità, e nel contempo quel mix di ansie, tormenti, desideri repressi. La protagonista Leda ripercorrere il suo vissuto, l’abbandono per breve tempo delle proprio figlie per inseguire un abbaglio di passione e “libertà”. Se la Colman è sempre misurata e inappuntabile, coadiuvata anche da validi comprimari come Dakota Johnson, Jessie Buckley ed Ed Harris, il film nel complesso appare invece non del tutto risolto o compatto, con una tensione narrativa a corrente alternata. Sull’opera prima della Gyllenhaal ha dichiarato ancora Giraldi: “Nel primo film della regista statunitense tornano tutte le suggestioni apprese nei molti film interpretati, per la maggior parte di notevole spessore. In tal senso, forse, proprio per questo grande bagaglio di suggestioni, il suo film d’esordio appare eccessivamente denso e a tratti confuso, non riuscendo a centrare pienamente l’obiettivo. Di sicuro la Colman da sola non può sorreggere l’intero film, garantendone la riuscita. Bene dunque, ma non benissimo”. Dal punto di vista pastorale “The Lost Daughter” è complesso, problematico e adatto per dibattiti.