Ha ancora senso la confessione? Risponde il teologo
Ci sono due cose che faccio con una certa difficoltà: andare dal barbiere e andare a confessarmi! Eppure di tanto in tanto è necessario.
Non è facile per nessuno celebrare questo Sacramento. Le difficoltà cominciano già sul nome: rito della penitenza, riconciliazione, sacramento del perdono o, popolarmente, “confessione”. Confessarsi non vuol dire solo dire i peccati, ma conoscere e accogliere la misericordia di Dio e di questa tutti ne abbiamo bisogno. È la parola di Dio il fondamento anche di tale sacramento; non tanto e non solo aver qualcosa da dire a Dio, i nostri peccati, ma anzitutto ascoltare quello che lui ha da dire a noi. Quella Parola ha una sua straordinaria efficacia nell’illuminarmi, nel guidarmi e nel darmi la forza di compiere il bene, perché il peccato fondamentalmente è non ascoltare, non seguire, non vivere la parola di Dio. Inoltre, la confessione con l’assoluzione non è un rito magico, non è un’amnistia, non è un mettere a posto i conti con il Padre eterno! Ha bisogno di un “cammino”, di un itinerario penitenziale. È l’incontro con il Padre misericordioso che ci offre il suo amore e il suo perdono, ma chiede a noi un autentico impegno di conversione. Benedetto XVI rispondendo a una domanda di un detenuto nel 2011, diceva: «Se lei si mette in ginocchio e con vero amore di Dio prega che Dio perdoni, egli perdona... Ma c’è un secondo elemento: il peccato non è solamente una cosa “personale”, individuale, tra me e Dio. Il peccato ha sempre anche una dimensione sociale, orizzontale. Con il mio peccato personale, anche se forse nessuno lo sa, ho danneggiato anche la comunione della Chiesa, ho sporcato la comunione della Chiesa, dell’umanità. E perciò questa dimensione sociale, orizzontale, del peccato esige che sia assolto anche a livello della comunità umana, della comunità della Chiesa... E così, in questo senso, l’assoluzione necessaria da parte del sacerdote, il sacramento, non è un’imposizione che limita la bontà di Dio, ma, al contrario, è un’espressione della bontà di Dio perché mi dimostra che anche concretamente, nella comunione della Chiesa, ho ricevuto il perdono e posso ricominciare di nuovo».
don Giulio Viviani
Docente di Liturgia dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Romano Guardini” di Trento