20 febbraio 1916: è bestiale l’uomo che dice di amare la guerra
Gli strali del settimanale diocesano colpiscono un libro di Giovanni Papini, La paga del sabato, che ripropone enfatizzata la tesi futurista della guerra igiene del mondo. Lo scrittore è citato a esempio della degenerazione dell’uomo senza fede.
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Il taglio “popolare” che la Difesa del popolo assunse fin dai primi anni di pubblicazione non le impedì di essere attenta alle più eclatanti manifestazioni degli intellettuali dell’epoca, soprattutto di quelli che facevano scalpore per le loro prese di posizioni “provocatorie” sul piano delle idee e del costume.
In varie circostanze sulle colonne del settimanale diocesano compariranno commenti agli scritti di Gabriele d’Annunzio, ma ci sono, per restare nel 1916, citazioni di Victor Hugo, Ada Negri, Luigi Capuana.
A Giovanni Papini il giornale fa riferimento per ben due volte nell’arco di poco tempo.
Già il 30 gennaio, con il titolo “Non tutti i matti sono in manicomio, e non tutte le belve sono in gabbia” era uscito un articolo siglato “D. O. R.” che riportava sostanzialmente gli stessi brani citati successivamente, accusando inoltre il Papini «socialista, sindacalista, futurista sfegatato», collaboratore del Popolo d’Italia e «guerrafondaio focoso» di essersi fatto inabile all’arruolamento giustificandosi con il fatto che «un uomo di talento non si rifabbrica da un momento all’altro» (le biografie riportano che è stato riformato a causa della sua forte miopia).
La truculenta presa di posizione di Papini a favore della guerra effettivamente sa molto di “futurismo”, e già il 7 febbraio 1915, quando l’Italia era ancora neutrale, la Difesa aveva commentato la presa di posizione di questi “guerrafondai per manìa” secondo cui «la guerra svilupperà la ginnastica, lo sport, la scuola pratica di agricoltura, di commercio e industria. La guerra ringiovanirà l’Italia, la arricchirà di uomini e di azione, la costringerà a vivere non più del passato, delle rovine e del dolce clima, ma delle proprie forze nazionali».
Ma Papini va oltre, perché «oltraggia i morti e oltraggia i vivi; oltraggia tutto e tutti vomitando la prosa più ignominiosa contro quanto vi ha di più sacro e di più umano». San Paolo, si scrive poco più in là, «ha scritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo “l’uomo bestia non capisce affatto le cose dello Spirito di Dio”. Ebbene, Giovanni Papini è precisamente tale». D’altra parte la liberazione dell’uomo bestia e dei suoi istinti aggressivi era stato l’intento esplicito del futurismo marinettiano a cui non pochi intellettuali contemporanei avevano aderito.
L’affermazione colloca l’esempio letterario nel contesto ideologico del giornale, secondo il quale è l’uomo che ha rinunciato a Dio e alla religione il vero artefice della guerra.
Gli istinti umani lasciati a se stessi e governati solo dall’egoismo portano inevitabilmente non alla eruzione liberatrice, alla catastrofe purificatrice, ma all’autodistruzione. L’unica salvezza per il genere umano è nel Gesù del Vangelo.
Abbiamo scritto
Un libro – La paga del soldato – fu pubblicato da G. Papini, socialista e interventista rivoluzionario, collaboratore di quel Popolo d’Italia che è divenuto ormai il ricettacolo di tutte le più sfacciate e immonde espettorazioni socialiste. A pagina 130 di esso si legge: «Ci voleva un bagno caldo di sangue nero, dopo tanti umidicci e tiepidismi di latte materno e di lagrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue... Innanzi tutti siamo in troppi. E la guerra leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati... Fra le tante migliaia di carogne abbracciate alla morte, e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti delle mani e dei piedi messe insieme... Non si rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A che cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere? La guerra inoltre giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono per molti anni assai più di prima, senza altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchieranno i fanti tedeschi, e che grosse patate si caveranno in Galizia quest’altr’anno. Amiamo, amiamo la guerra, ed assaporiamola, da buongustai, fin che essa dura». Avremmo volentieri risparmiato a noi e ai lettori la nausea e lo sdegno che i surriferiti periodi non possono fare a meno di suscitare, non diciamo in ogni onesto, ma in ogni persona che non sia del tutto degenerata. Ma è necessario che si faccia toccar con mano fin dove si può giungere seguendo certe teorie malaugurate e certi riprovevoli istinti (...).