Quando l’incubo si risveglia. Il J’accuse di Zola tra cronaca e cinema
L’affaire Dreyfus, conclusosi con il reintegro dell’ufficiale nell’esercito, dimostra che la ricerca del capro espiatorio ha momenti di risveglio.
L’affare Dreyfus ha da sempre (un sempre che dura da più di centoventi anni) colpito le coscienze degli uomini di buona volontà, coloro che, a prescindere dal colore politico e dalla fede religiosa, hanno capito che è la verità è una e sacra, attirando anche l’attenzione di scrittori a venire, come l’Umberto Eco di “Il cimitero di Praga”. La premiazione con il Leone d’argento a Venezia del film di Polanski, “J’accuse” ha riportato sotto i riflettori non solo un caso storico, ma il ruolo stesso degli intellettuali, dell’opinione pubblica, della politica. Come è noto il titolo è ispirato al celebre articolo di Emile Zola su “L’Aurore” del 13 gennaio 1898, nel quale lo scrittore si rivolgeva direttamente al “primo magistrato del Paese”, il presidente della Repubblica Félix Faure, per denunciare lo scandalo dell’assoluzione di un ufficiale, Esterhazy, sulla cui colpevolezza non vi erano ormai dubbi, in una riapertura-farsa del processo che quattro anni prima aveva visto la condanna di Alfred Dreyfus. Il foglietto fatto a pezzi trovato dalla donna delle pulizie nel cestino dell’ambasciata tedesca presentava una grafia che alcuni esperti videro simile, non identica, a quella di Dreyfus, e questo bastò per una condanna all’ergastolo in una fortezza della Guyana francese. Bisogna pur dire che uno dei primi ad accorgersi della infondatezza delle “prove” fu un membro dell’ambasciata italiana a Parigi, il segretario di legazione Raniero Paolucci di Calboli.
Una serie di circostanze aveva contribuito a questa drammatica messa in scena: non si trattava però di un solo schieramento politico, ma di gran parte dell’opinione pubblica. Dreyfus era ebreo, in una Francia (e non solo in Francia) in cui vi era un forte pregiudizio antisemita. Seconda cosa: era alsaziano, e questo equivaleva ad essere considerato tedesco. Nulla di più sbagliato: Alfred si era arruolato nell’esercito – nonostante l’ostilità verso gli ebrei in questo ambiente – proprio per contribuire alla riconquista di quel territorio perduto dopo la sconfitta del 1871 con i Prussiani. Terzo “indizio”: la sua famiglia era ricca, e quindi confermava il luogo comune dell’ebreo usuraio e nel contempo dava molto fastidio ad una casta in cui segno dominante era l’appartenenza alla nobiltà “ariana”. Quarto: la sinistra, e il suo partito egemone, quello socialista, stabilì che quelli erano affari interni alla borghesia, segno inequivocabile della sua decadenza: se la vedessero tra di loro. Solo in un secondo momento ci fu un ripensamento e, complice Peguy, maggiore attenzione verso un’ingiustizia, comunque la si vedesse. La distorsione politica era anche negli occhi di gran parte dello schieramento moderato repubblicano: lo scandalo rischiava di favorire il ritorno della monarchia. Solo alcuni intellettuali, i già ricordati Zola (che tra l’altro venne condannato per quel suo articolo) e Peguy, con il suo “Comitato cattolico per la difesa del diritto”, e poi Marcel Proust, che sarebbe diventato uno dei miti della letteratura con la sua interminabile Ricerca del tempo perduto, e ancora Anatole France, Monet, Pissarro, Gide, solo per fare alcuni nomi.
L’affaire Dreyfus, conclusosi con il reintegro dell’ufficiale nell’esercito, dimostra che anche dopo l’olocausto, dopo i pogrom, la ricerca del capro espiatorio ha momenti di risveglio. I periodi di crisi, di instabilità, di percezione di uno stato debole e incapace di difendere la gente, portano inevitabilmente alla ricerca di un agnello sacrificale. Dopo Sedan, quale agnello da sacrificare sull’altare del luogo comune era più appetibile di una “razza” estranea che secondo un luogo comune aveva fatto perdere la guerra? Peccato che un figlio di quella “razza” si fosse arruolato per contribuire alla rivincita militare. Ma questo, all’inizio non bastò a frenare un ingranaggio vecchio di secoli e che aveva ripreso inerzia.