I duecento anni dalla nascita del poeta Walt Whitman. Cantò anche il creato
Resta abbagliante la stella di un poeta che fu talvolta attaccato per la sua irruente vitalità e che però ha influenzato molta della letteratura a venire.
“Oh capitano! Mio capitano! Il nostro viaggio tremendo è finito,
la nave ha superato ogni tempesta, l’ambìto premio è vinto,
il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante,
gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello”.
Sono versi resi celebri dal film di Peter Weir, “L’attimo fuggente”, del 1989, con la scena-icona del professore, Robin Williams, che sale sulla cattedra imitato dai suoi allievi che gli dicono addio con quelle parole di Walt Whitman. Come capita sovente, il film (il dito che indica la luna) nasconde la luna stessa, e cioè le “Foglie d’erba” uscite per la prima volta nel 1855. Quando il presidente Lincoln venne assassinato nel 1865, il poeta statunitense accluse quei versi, che diverranno celebri anche grazie al cinema oltre un secolo dopo. Ma resta abbagliante la stella di un poeta che fu talvolta attaccato per la sua irruente vitalità, da alcuni per una supposta omosessualità, e che però ha influenzato molta della letteratura a venire: la generazione beat, soprattutto Allen Ginsberg, lo elesse a maestro di anticonformismo, e lo stesso fecero i grandi menestrelli della nuova America, Dylan compreso. Con il tempo Whitman divenne un, come lo chiameremmo oggi, rinomato “influencer”, perché in molti lo citarono e gli dedicarono delle loro poesie, come fece Ezra Pound, che dovette riconoscere la sua fascinazione nonostante il tentativo di liberarsene (“ristabiliamo commercio tra noi”), che pure non era distante dalla celebrazione dell’atto come unico rapporto con la natura. A lui dedicarono versi Hart Crane, Borges, Ruben Dario (che lo canta come “sacerdote che il divino soffio alimenta”), Neruda (“il popolo tutto si ascoltava in te”) e ovviamente Allen Ginsberg, che gli dedica parole commosse in “Jukebox all’idrogeno”, uno dei manifesti della cultura alternativa. Ma anche in Italia ci furono autori che dovettero fare i conti con lui, soprattutto il D’Annunzio che riportò esplicitamente alcuni suoi versi in una delle Odi Navali, e che anche in altre opere non è esente dalla fascinazione del poeta americano, e il grande poeta-vagabondo Dino Campana. Senza dimenticare quel verso “Io canto il corpo elettrico” divenuto famoso sia per un altrettanto celebre titolo di Ray Bradbury, l’autore di “Fahrenheit 451”, sia per il pezzo omonimo dei Weather Report, uno dei più importanti gruppi jazz-fusion della scena mondiale. Non male per essere un esponente di una cultura che i giovani (i quali nulla sapevano di queste “contaminazioni”) ritenevano barbosa e del tutto lontana dai loro interessi. E sbagliavano, perché, come abbiamo visto, Whitman è alle basi di tutta una cultura che metterà radici un po’ dovunque e che ha sviluppato una visione ecologica dell’esistenza. Anche qui sta la modernità del poeta americano: la comunione con il creato, che si fonde con la celebrazione del creatore, in versi veloci, spontanei e di rara forza: “Ora so che la mano di Dio è la promessa della mia,/ so che lo spirito di Dio è il fratello del mio spirito/ (…) e che la controchiglia della creazione è l’amore/ e che sono infinite le foglie dritte o recline nei campi/ e le brune formiche nei piccoli pozzi sotto di loro”.
Fratellanza in Dio, democrazia, ma anche celebrazione dell’io, amore per il creato, tutto ciò che in altri sarebbe stato contraddittorio, in Whitman è armonico, fluente, fraterno. Come un suo verso non molto conosciuto ma che è davvero un inno assoluto alla bellezza dell’incontro su questa terra e oltre: “ora ci siamo incontrati, ci siamo guardati, siamo salvi”.