Lavorare spesso da casa: pensavo di vivere già in "isolamento", adesso mi rendo conto delle ore passate in giro
Da giornalista freelance il mio studio è la scrivania in taverna e molte riunioni quotidiane di redazione sono con il mio cane che, quasi sempre, mi asseconda. Non ho orari e ogni giorno mi tuffo in articoli differenti. Possono sembrare anticorpi sufficienti per l'isolamento forzato, ma mi sbagliavo. Manca la parte centrale della mia vita e del lavoro: girare vorticosamente ed essere a contatto con le persone e assorbire le loro storie.
Oggi, giovedì 26 marzo, avrei avuto due appuntamenti. Organizzati in largo anticipo, segnati sull’agendina con una penna che era ancora di un altro colore. A uno dei due ero (sono) particolarmente legato a livello professionale perché sarei dovuto andare in una scuola per un articolo da inserire nell’inserto della World Social Agenda che annualmente la fondazione Fontana pubblica sulla Difesa del Popolo. Tutto, ovviamente, saltato o chissà posticipato.
Ecco, rileggere queste annotazioni scritte un po’ alla rinfusa è stata una bella gomitata, non fosse altro che per la scelta del secondo argomento che ci siamo dati noi giornalisti in quarantena (com’è cambiato il lavoro di ciascuno di noi) a cui ero pronto a rispondere con un po’ di spavalderia mista ad anticorpi: «Al momento nulla di diverso perché già da qualche anno ho un’impostazione lavorativa “casalinga”».
Da freelance il mio ufficio è la scrivania giù in taverna o nei giorni più pigri anche il divano. Le riunioni di redazione quotidiane sono con il mio cane che asseconda, spesso, le mie proposte e iniziative. Lettura mattutina dei quotidiani online, rapido check all’email mentre faccio colazione e poi si inizia. Orari sballati molto spesso in base alle consegne e alle scadenze, su questo sono molto flessibile. Poi telefonate per interviste, per concordare appuntamenti, controllare notizie in aggiornamento, scrivere, scrivere e scrivere. Ora ci dicono che dobbiamo stare in isolamento e messa così non mi spaventava e non mi spaventa pensando di essere già rodato e pronto all’uso.
Però no, non sono pronto, forse sono più avvantaggiato rispetto a chi ha un’impostazione più cadenzata, fatta di spostamenti quotidiani e routinieri, di uffici, di pratiche e di colleghi con cui condividere le canoniche minime otto ore lavorative. Non sono pronto perché in tutto questo manca la centralità della mia vita: uscire, camminare, incontrare persone, relazionarmi su progetti, prenderne parte, fotografare, ascoltare. Due anni fa, era estate, ho anche strappato due pantaloni consecutivamente, usurati e consumati da chilometri macinati (ne vado fiero, ho ambizioni basse). Prendere un caffè al solito baretto che è il mio ufficio in esterna. Andare in giro per il quartiere Arcella , parte viscerale della mia vita da quattro anni, indossare un cappello di lana o un altro qualsiasi. Esatto, a casa sono il @giornalistasenzacappello.
Ma sono ancora in giro per le strade. Molto di meno e con molta più prudenza. E con plichi di fogli di autocertificazione e lo storico di tutte le foto scattate in questi giorni di isolamento. Con scorci d'asfalto talmente vuoti che si può scorgere l’orizzonte più profondo senza intralci nella visuale. La vita quotidiana si sta rimodellando, la mia come quella che racconto: sono cambiate le iniziative, ora sono gesti emergenziali, ma c’è ancora tanta voglia di umanità, di essere al servizio dell’altro. Tutto questo va scritto, va fissato per futura memoria. Anche se molti progetti sono saltati, con lo sconforto che ne deriva e con l’energia di chi non si è mai fermato, ma ha solo cambiato scarpe e iniziato una nuova corsa.
Sull'agendina ho depennato i due appuntamenti e ho riempito la paginetta di tante altre piccole annotazioni. Noi giornalisti abbiamo spesso una grande fortuna: poter osservare da vicino tutte queste storie. E imparare ogni giorno.