La parola. Un silenzio gravido di umanità
La parola lascia il campo alla sua assenza. Non esprimersi significa aprire il dialogo profondo con se stessi. A un anno di distanza dal primo lockdown mi chiedo ancora se valga la pena riempire le nostre giornate di parole vuote
“Andrà tutto bene!” - una voce si eleva da un balcone in una città deserta, subito dopo, applausi e sussurri di melodie classiche riempiono un silenzio nostalgico.
Un uomo stanco, in bianche vesti, sotto la pioggia alza lo sguardo ad un crocifisso. Nessuno parla, tutto tace, in lontananza si sentono solo le sirene delle ambulanze. Piazza San Pietro è deserta, non ci sono canti né applausi, soltanto la preghiera silenziosa di un papa, che ci ripete: «Siamo tutti sulla stessa barca».
Spesso il silenzio, in una società frenetica come la nostra, viene messo in disparte, dimenticato; spesso è fonte di imbarazzo, crea disagio. Non si ha più il tempo per ascoltare, ascoltare veramente. Fare silenzio dentro noi stessi. Non eravamo pronti, non eravamo abituati a sentirne la voce. Eppure il lockdown ci ha forzati ad ascoltare. La pandemia ci ha dato la possibilità di vivere nuovamente il silenzio.
Chiuso in casa, isolato nella mia camera, le parole non avevano più quello stesso sapore, erano parole vuote. Pensieri, desideri e paure erano tutte custodite in un silenzio gravido di speranza. Le relazioni con gli altri hanno lasciato spazio a un dialogo assiduo e profondo con me stesso, che tuttavia non necessitava di parole, bastava il mio silenzio. Il mio silenzio in funzione di una voce tanto sommessa da essere impercettibile.
Che sia la voce di qualcun altro? Eppure in alcune occasioni, diventava davvero pesante: troppi pensieri, fino a prima ignorati, troppe domande che trovavano ciascuna il loro spazio in quell’immenso silenzio. Un silenzio che spesso è causa di dolore e distacco.
Tuttavia ci è stata regalata l’opportunità di trasformare il nostro silenzio indifferente in volontariato. Quante persone altruiste si sono prodigate in gesti di solidarietà durante il lockdown? Quanti giovani hanno fatto sentire la loro vicinanza alle persone più in difficoltà, portando la spesa a casa o facendo una telefonata? Non c’erano le parole, soltanto sguardi di affetto che trasparivano da un volto mascherato. Non era un silenzio vuoto. Non era un silenzio di paura o solitudine, ma di speranza, di gratitudine, di fede. Forse anche di pace...
A distanza di un anno dal primo lockdown, mi domando ancora se valga la pena riempire le giornate di inutili parole; è forse meglio adornare di pause e sospiri e silenzi la nostra sinfonia? Papa Francesco ci ricorda che da una crisi necessariamente bisogna uscire trasformati. Il silenzio è un valido compagno da tenersi stretti anche in futuro. Il silenzio ci educa alla disponibilità – ascoltare il prossimo significa prima di tutto fare silenzio dentro di noi – ci insegna il rispetto, permette di pesare le parole e riconoscere la solennità di momenti importanti. Il silenzio aiuta a far memoria.
Quell’uomo in bianche vesti è ancora lì. Prega ancora, in silenzio, per tutti noi. «Nessuno si salva da solo», dice ripetutamente il papa. Adesso, però, in quella piazza non c’è solo lui. Quel silenzio, che fa da cornice a tutto, parla e racconta tutte le storie che non si sono dette a parole, tutte le speranze della gente, tutti gli sforzi di medici, infermieri e volontari, tutti i nomi delle vittime e soprattutto tutti i gesti di solidarietà compiuti, perché il bene agisce in silenzio, e quanti conoscono la sua voce sanno riconoscerlo.
Francis Fernando Chkrawarthige Praveen