Il fascino discreto della famiglia. La lunga e spesso taciuta attrazione del matrimonio nella cultura occidentale
Molte sono le narrazioni della vita in comune che svelano i misteri, gli ostacoli, le gioie, le rivelazioni di questa affascinante avventura.
A pensarci bene, anche nel romanzo antico, quello ellenistico e poi bizantino, la vocazione all’unità coniugale esisteva: non si trattava solo di fugaci amori e di peripezie, ma anche di castità e di cocciuta ricerca della persona amata per poter creare una famiglia, finalmente. Ricerca che, nonostante non sia stata di moda per alcuni periodi, è presente anche nella modernità, ad esempio, ma questa non è una novità, nei “Promessi sposi”. La novità sta nel fatto che il romanzo andrebbe riletto attraverso una nuova prospettiva: la fine della storia di Renzo e Lucia coincide con l’inizio di una nuova avventura, quella della famiglia, che se pure “seccherebbe a morte”, (come scrive Manzoni) un lettore patito di colpi di scena e di amori folli, è qualcosa di talmente altro, complesso, apparentemente banale che non potrebbe mai essere raccontato. La realtà del matrimonio, sembra dire lo scrittore, non può essere narrata, semplicemente perché non è una finzione con damine incipriate e lettere segrete, ma qualcosa di molto più profondo e talvolta indicibile. Manzoni aveva di fronte a sé il modello della Sacra Famiglia, l’esempio per eccellenza di come la fedeltà possa costituire il centro di una narrazione: un modello ineguagliabile e “scandaloso” a modo suo, perché per duemila anni ha affascinato credenti e non con una storia coniugale: non di lettere d’amore, ripensamenti, scenate, fughe, antagonisti amorosi, ma quella di una coppia che si trova a fare i conti con la violenza del sistema, le prepotenze, la povertà improvvisa, eppure rimane unita. La differenza con certa narrativa antica è evidente: questa raccontava di peripezie prima del ricongiungimento, i vangeli narrano la storia del dopo, quella che il Gran Lombardo non si sentiva in grado di raccontare.
Ma anche nel Novecento c’è stato chi, come Chesterton, ad esempio con “Uomovivo” (1912) ha narrato le possibilità di rinnovamento nel matrimonio, se vissuto come perenne avventura di corteggiamento e ricerca profonda della persona sposata. Come scrisse in “L’uomo che fu giovedì”, nella dedica a E. C. Bentley, “abbiamo infine conquistate le cose comuni, una sposa e un fede, e quindi adesso ne scrivo, e tu leggerai, in perfetta quiete”.
Anche per chi, come Pascoli, ha preferito non percorrere la strada matrimoniale, l’unione per sempre ha costantemente mantenuto il suo fascino: se il poeta non ha voluto rimettere in circolo il dolore per la perdita paterna (e il dolore in generale), rimarrà evidente in lui l’attrazione per il focolare perduto.
In un libro-chiave per capire molto sul nostro immaginario affettivo, “L’amore e l’occidente”, Denis de Rougemont (1906-1985) evidenzia che l’amore per l’amore dei trovatori e poi di gran parte della poesia medioevale (e oltre: basti pensare a Petrarca) era una forma narcisistica di rispecchiamento di sé nell’altro, non di un amore capace di mantenersi in vita nei sacrifici e nelle inevitabili tribolazioni nel dopo. Non è un caso che dopo aver parlato del perfetto amore cortese, Andrea Cappellano (1150-1222) alla fine della sua opera, il “De amore”, facesse notare tutti i limiti di un’idea – seppure seducente – di un altro in realtà non esistente. Lo stesso Dante deve ammettere, dopo la “Vita Nuova”, che la sua immagine di Beatrice era qualcosa che lo teneva incatenato ad una idea non reale. E ci sono tante altre narrazioni della vita in comune che svelano i misteri, gli ostacoli, le gioie, le rivelazioni di quella che è, nonostante tutto, una vera, affascinante avventura.