La morsa del debito. Un peso e due misure: il doppio fardello del Sud del mondo
Il debito estero grava sullo sviluppo dei Paesi poveri. Il Papa - ancora una volta in occasione del Giubileo - ha richiamato le Nazioni ricche a intervenire "cancellando o riducendo quanto più possibile" il fardello che genera a sua volta povertà e ingiustizia planetaria. Diversi organismi cattolici hanno lanciato la campagna "Cambiare la rotta" con una proposta chiara: non basta rinegoziare i pagamenti, bisogna ridurre in maniera significativa il peso del debito per permettere ai Paesi di investire nel proprio futuro

È un paradosso dei nostri tempi: le Nazioni meno responsabili delle emissioni di gas serra sono quelle che subiscono le conseguenze più devastanti del cambiamento climatico. Mentre il Nord globale continua a prosperare, il Sud globale è intrappolato in una morsa di debito e crisi ambientale. Secondo il Climate Vulnerable Forum, questi Paesi perdono annualmente il 20% del loro Pil a causa dei danni climatici, mentre il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avvertono che oltre il 60% delle economie in via di sviluppo sono a rischio di crisi debitoria. Una situazione che non può essere più ignorata, soprattutto considerando che le risorse che dovrebbero essere impiegate per adattarsi alla crisi climatica vengono invece dirottate per ripagare prestiti contratti in condizioni spesso inique.
Per fare fronte a questa emergenza, nel 2020 il G20 ha introdotto il Common Framework for Debt Treatments, una misura che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto offrire ai Paesi più poveri un percorso per la ristrutturazione del loro debito. Tuttavia, la sua applicazione si è rivelata lenta e inefficace. Il problema principale è che il Common Framework richiede l’adesione sia dei creditori pubblici che di quelli privati, ma mentre gli Stati possono essere persuasi a rinegoziare, gli investitori privati non hanno alcun incentivo a ridurre i loro guadagni. Ne è derivato un processo lungo, in cui le economie emergenti si ritrovano in una condizione di attesa paralizzante, senza accesso ai finanziamenti necessari per investire in sviluppo e resilienza climatica.
È evidente che servono soluzioni più audaci e immediate: la posta in gioco non è solo il risanamento economico, ma la possibilità stessa di costruire un futuro sostenibile per intere popolazioni.
Un caso emblematico è quello dello Zambia, primo Paese africano a dichiarare default dopo lo scoppio della pandemia.
Con un debito pubblico che nel 2021 superava il 120% del Pil, il governo ha dovuto negoziare una ristrutturazione con il Club di Parigi, il Fmi e investitori privati. L’accordo ha previsto un taglio del debito e nuove scadenze più sostenibili, ma il prezzo da pagare è stato alto: i creditori hanno imposto tagli alla spesa pubblica, riducendo i fondi per la sanità e l’istruzione. Di conseguenza, nonostante un’apparente stabilizzazione macroeconomica, la popolazione continua a vivere una crisi sociale profonda. Gli ospedali soffrono di carenze croniche di medicinali, il sistema educativo è sottofinanziato e i progetti infrastrutturali restano bloccati.
Questo esempio dimostra che la ristrutturazione del debito, se non accompagnata da un piano di investimenti sociali e produttivi, rischia di essere solo un palliativo che non risolve i problemi strutturali delle economie fragili. Di fronte a questo scenario, la società civile sta alzando la voce per chiedere un cambio di paradigma. La campagna “Cambiare la rotta”, promossa da organismi del mondo cattolico, mira a mettere pressione sulle istituzioni internazionali affinché il debito venga gestito in modo equo e sostenibile. La proposta centrale è chiara: non basta rinegoziare i pagamenti, bisogna ridurre in maniera significativa il peso del debito per permettere ai Paesi di investire nel proprio sviluppo. Papa Francesco, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2025, ha affermato con fermezza: “Incoraggio pertanto i governanti dei Paesi di tradizione cristiana a dare buon esempio, cancellando o riducendo quanto più possibile i debiti dei Paesi più poveri”.
Ma le contraddizioni non finiscono qui. L’Occidente accusa la Cina di imporre ai Paesi africani un modello di sviluppo basato su investimenti infrastrutturali che li lasciano in balia del debito. Eppure, gli Stati Uniti, l’Europa e l’Italia stessa adottano dinamiche simili. L’Unione europea ha lanciato il Global Gateway, un piano da 300 miliardi di euro per finanziare infrastrutture nei Paesi partner. Sebbene presentato come un’alternativa sostenibile alla Belt and Road Initiative cinese, in molti casi ricalca lo stesso schema: finanziamenti erogati senza una chiara strategia per evitare che diventino un peso insostenibile per le economie beneficiarie. Anche l’Italia ha seguito questa linea: con il coinvolgimento in progetti in Africa e Medio Oriente, la Penisola sta consolidando la sua presenza economica nei mercati emergenti, spesso senza garantire condizioni finanziarie eque ai Paesi destinatari.
Se l’Occidente critica Pechino per la cosiddetta trappola del debito, allora perché continua a operare secondo lo stesso modello? Se l’obiettivo è davvero uno sviluppo equo, perché i grandi investitori internazionali non adottano un meccanismo che garantisca sostenibilità economica e sociale? Domande che restano senza risposta, mentre interi Paesi continuano a pagare il prezzo di un sistema che, invece di offrire opportunità, perpetua squilibri e dipendenze.
La crisi del debito e quella climatica non sono emergenze separate, ma due facce della stessa medaglia.
Affrontarle richiede un impegno collettivo, riconoscendo che la stabilità economica e ambientale del pianeta dipende da scelte condivise. Ristrutturare il debito e investire nello sviluppo sostenibile non è solo un atto di giustizia verso le Nazioni più vulnerabili, ma una necessità per l’intera famiglia umana. Il futuro del nostro pianeta è una responsabilità comune, e colmare queste disparità non è una questione di carità, ma di sopravvivenza globale.
Giovanni Rocca (*)
(*) Fondazione Missio