Dalla negazione all’odio: i sentimenti al tempo del Coronavirus
Quella che proviamo in questi giorni non è esattamente paura, ma un dilagante e profondo stato di angoscia, che tocca i nostri corpi, oltre che la nostra psiche e le nostre relazioni con il mondo.
L’angoscia a cui ci espone il Coronavirus è primariamente angoscia di morte, di catastrofe, di perdita di noi stessi e degli altri. La nostra psiche va in uno stato di allarme costante di fronte ad un nemico invisibile e perturbante.
Cerchiamo vie per uscire da questo stato di tensione che ci attanaglia: avere troppa contezza della realtà è drammatico e pericoloso. Abbiamo paura del contatto e ci aggiriamo per le strade, o per i supermercati, guardandoci con sospetto, con diffidenza, finanche con odio. Cerchiamo segnali di pericolo ovunque e vogliamo tenere tutti a distanza.
Si vedono persone, che normalmente ci sembravano capaci ed equilibrate, rifugiarsi nella negazione della realtà: quante volte ci è capitato di sentire la frase: «è poco più di una banale influenza» oppure «stanno esagerando con queste misure di contenimento». Di lì a poco vediamo le stesse persone passare ad uno stato di prostrazione e di melanconia, oppure virare verso un’aggressività pervicace, quando non scivolare nella paranoia che gli altri, tutti gli altri, vogliano infettarli, contagiarli, ucciderli. Anche le teorie complottiste in questo periodo di Coronavirus vanno per la maggiore: dalle più casalinghe (è colpa dei Cinesi) alle più elaborate (è colpa di una speculazione da parte di alcune multinazionali). Soprattutto i giovani, invece, si angosciano all’idea di trasformarsi in killer seriali, in novelli untori che ammorbano con il loro corpo quello dei parenti più anziani cui ambivalentemente pure vogliono bene. Ogni fantasmatica in questo momento si scatena dai suoi argini razionali e prende il corpo del Coronavirus.
Tutto è utile al fine di non vivere l’angoscia della nostra fragilità, l’angoscia dell’ignoto, del non sapere che cosa ci aspetta.
Negare la realtà, come fanno in questi giorni anche alcuni capi di stato, che in questo momento stanno assumendo comportamenti negazionisti e non mettono in atto tutte quelle disposizioni che permetterebbero di salvare vite umane, avrà conseguenze nefaste e devastanti su migliaia di cittadini inerti, che non hanno il potere per fronteggiare un pericolo reale, prepotente e letale.
L’hashtag #iorestoacasa è diventato un mantra pervasivo, un imperativo categorico, un comando superegoico, e chi non lo pratica viene guardato con sospetto, con riprovazione. Tutti noi, in questo momento, viviamo come possiamo, cercando di aggrapparci ad un brandello di speranza, alla luce in fondo al tunnel, confidiamo nella scoperta di un antidoto.
A volte confondiamo immaginario e reale, ci rifugiamo nei social, nei blog, guardiamo tanta TV, nella ricerca affannosa di qualcosa che ci consoli, che ci faccia sentire al riparo, che ci dia qualche certezza. E così procediamo in uno stato di confusione tra ciò che è immaginario e ciò che è reale, tra vita vissuta e ciò che compare sullo schermo. Questo isolamento forzoso ci spinge a cercare riparo nel mondo immaginario che abbiamo a disposizione. Quando ci svegliamo la mattina, in quel breve attimo che sta tra l’onirico e la veglia, non sappiamo più dove dobbiamo andare, cosa dobbiamo fare, e neppure più chi siamo. Tutte le nostre abituali certezze sono crollate all’improvviso, si sono dileguate in pochi giorni. Siamo improvvisamente poveri: di salute, di legami e di sostanze.
Rifugiarsi nel virtuale e nell’immaginario serve, ci permette di sopportare una realtà altrimenti sconcertante. In fondo è un meccanismo adattivo. Tutti noi ci aggrappiamo all’immaginario quando la realtà è troppo massiccia, troppo faticosa, o addirittura drammatica. Nel film La vita è bella Roberto Benigni interpreta un uomo ebreo ilare e giocoso che, deportato insieme alla sua famiglia in un lager nazista, cerca di proteggere il figlio dagli orrori dell'Olocausto, facendogli credere che tutto ciò che vedono sia parte di un fantastico gioco in cui dovranno affrontare prove durissime per vincere il meraviglioso premio finale. Il film è un bell’esempio di come aiutare anche i più piccoli, anche i più fragili, a tollerare l’angoscia, a guardare alla realtà mediante gli occhiali dell’immaginazione. È un modo per non cadere nel baratro dell’ignoto.
In questo momento è importante stare insieme, almeno per chi può, in famiglia per esempio, o comunque stringersi in un abbraccio, seppur virtuale, con gli amici lontani. È solo il legame con l’altro, la sua umanità, il suo supporto e il suo calore che ci protegge da quel raggelamento emotivo che può provocarci la solitudine e l’isolamento, le fughe nella dissociazione, o lo sconfinamento nell’odio e nel pensiero paranoico. Nessuno si salva da solo.
Marisa Galbussera
Psicologa, Psicoterapeuta e Psicoanalista
Consigliera Ordine Psicologi del Veneto