Scontro Israele-Iran: un bilancio provvisorio oltre le apparenze
Gli Usa sono atterriti dalla prospettiva di impantanarsi in un conflitto nel Medioriente da cui invece speravano di sfilarsi. Tel Aviv lo sa bene
La controrisposta “di soddisfazione” all’Iran da parte di Israele, per ora, sembra esserci stata, senza particolare veemenza: attraverso il breve raid di venerdì sulla base di Esfahan, non distante dalla locale centrale nucleare. Sulla sua portata probabilmente ha pesato l’invito di Washington a celebrare come vittoria la neutralizzazione del precedente attacco iraniano e chiudere così la partita. In cambio, la Camera Usa ha sbloccato 26 mld di dollari: di questi, 9 in aiuti umanitari a Gaza, diversi altri a rimpinguare l’arsenale consumato per la mattanza che rende necessari gli aiuti stessi. Inoltre l’ennesima dose di sanzioni contro Teheran è sul tavolo del G7, che si surroga a quella comunità internazionale che, complessivamente, non intende varare misure punitive, alla luce dell’art. 51 della Carta Onu, per cui, in caso di aggressione (quale è stato il raid sul consolato iraniano a Damasco), nell’inerzia del Consiglio di Sicurezza, uno Stato sovrano è legittimato a reagire.
Gli Usa sono atterriti dalla prospettiva di impantanarsi in un conflitto nel Medioriente da cui invece speravano di sfilarsi. Tel Aviv lo sa bene, proprio per questo, colpendo il consolato, ha inteso spedire un messaggio a Washington mettendola sotto scacco, all’indomani dell’astensione all’Onu che ha permesso la risoluzione (l’ultima violata in una collezione pluridecennale) che ingiunge di sospendere il fuoco sui civili. Con la reazione di Teheran, il messaggio in parola sembra avere sortito effetto. Quantomeno, l’operazione a Rafah può dirsi iniziata già con 22 vittime (18 minorenni), confutando una volta di più il militarismo di parte che, con improbabili pretesti di platea, indora la pillola parlando di riconoscimento facciale e dispositivi compassionevolmente indolori. Altra contropartita estorta per scongiurare l’escalation è stato il veto Usa al progetto di risoluzione per il pieno riconoscimento della Palestina nell’Onu, suscitando le rimostranze di Riad che invoca l’autodeterminazione e il diritto del popolo palestinese a uno Stato entro i confini del 1967. Che certo non concilia con gli omicidi perpetrati in Cisgiordania, ma soprattutto con la decimazione a Gaza. La quale evoca sempre più la cartina del “Nuovo Medioriente” esposta da Netanyahu alla 78a Assemblea generale Onu poche settimane prima del noto 7 ottobre: preoccupato dallo storico riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, il premier allora illustrava l’assetto di un profittevole transito per la prosperità (termine in voga oggi per le iniziative di guardiania di reale interesse) di molti, significativamente raffigurato senza i territori palestinesi.
Letto alla luce delle suddette contropartite, il polverone alzato con Teheran sembra avere funzionato. Eppure c’è un “ma”. Anzi due: uno militare, l’altro politico. Entrambi riferiti alla ritorsione iraniana. Quantunque preannunciata in tv, affidata non certo al top di gamma dell’arsenale, forse anche negoziata con Washington, essa non dà ragione a quanti la riducono a bluff da messinscena. Gli analisti che sanno far di conto stimano che l’Iran, a fronte di una spesa contenuta in droni e lenti missili da crociera (taluni senza testata), non solo ha saggiato per la prima volta la portata complessiva dell’Iron Dome, ma ha stressato la difesa – supportata da aerei statunitensi, britannici, francesi e giordani – per un valore di 1,3 mld di dollari. Una volta saturata la cupola antimissilistica, l’ha perforata mandando a segno i 7 ipersonici caduti nel perimetro delle basi coinvolte nel raid sul consolato. Dopo le controverse dinamiche del 7 ottobre, ciò rappresenta un nuovo colpo al mito dell’inviolabilità securitaria, su cui Netanyahu insiste da sempre, con un danno d’immagine che si ripercuote sulle commesse da siglare con acquirenti esteri. Sicché, nonostante la dissimulazione, è significativa la sollecitazione di sanzioni a contrasto del programma missilistico iraniano.
Teheran, a operazione conclusa, ha detto di considerare archiviata la vicenda, riservandosi di fare sul serio, incrociando a sorpresa e da più direttrici, se Tel Aviv non fosse del medesimo avviso. Del resto, la dottrina militare israeliana riconosce l’esigua profondità geostrategica che, atomica a parte, vedrebbe il Paese soffrire guerre che non siano offensive e brevi. Difficile dire se, su questi presupposti, Israele vorrà azzardare altre mosse. Ma indubbiamente dovrà calcolare un altro dato. La risposta dell’Iran infatti ha evidenziato l’indisponibilità di tutti i Paesi dell’area a concedere il proprio spazio aereo. Tutti tranne la Giordania, indotta a deporre l’ambiguità che pur basta a esporre la corona alle proteste dei sudditi.
Sul piano politico, l’Iran rafforza l’aura di paladino dell’antimperialismo mediorientale, il che non consente scelte impopolari alle petrolmonarchie sunnite. Tra queste l’Arabia Saudita, indotta a convalidare il multilateralismo della Global Security Initiative lanciata in seno ai Brics, vedendo nella Cina un attore stabilizzatore più affidabile di chi sia ostaggio delle intemperanze israeliane. E non è soltanto Riad a temere di essere coinvolta nella spirale del danno reputazionale che il governo Netanyahu, a testa bassa, va attirandosi a livello globale. Danno che, al di là delle logiche strumentali articolate tanto da Teheran quanto da Tel Aviv, si conteggia sulla carne viva di chi, nel silenzio e nella distrazione di troppi, sperimenta terrore e sterminio. A entrambi urge porre fine, se non per umanità, almeno per la credibilità nel discettare, sia pure con l’elmetto, di diritti umani e di comunità internazionale.
Giuseppe Casale*
*Pontificia Università Lateranense