L’Ucraina e la leva mediorientale: la tensione Nato-Russia riaccende la miccia siriana?
Considerando che Putin parla di responsabilità collettiva, per il Cremlino siamo in guerra
Mentre avanza inesorabilmente in Ucraina, la Russia rivede la deterrenza con l’Occidente. Agli Atacms, Storm Shadow e Scalp, il Cremlino risponde con Oreshkin. L’ipersonico a multitestata direzionabile non ha soltanto distrutto gli impianti sotterranei di Dnipropetrovsk, dove si sviluppavano vettori sovietici per l’atomica. Esso muta i rapporti di forza. La non intercettabilità e la precisione, confermate dagli esperti, rendono veridiche le parole di Putin, che minaccia di colpire i siti militari occidentali addirittura preavvisando per l’evacuazione dei civili. Montando testate convenzionali, l’ipersonico eguaglierebbe il nucleare ma senza gli effetti del terror bombing atomico sulla popolazione: quella altrui ma anche propria, rimediando così all’inconveniente di esporre la Russia alla diffusione radioattiva da un bersaglio situato in Ucraina o in Europa.
Putin non gioca a poker ma a scacchi, perciò non bluffa nel rispondere così alle autorizzazioni di Washington, Londra e Parigi sui suddetti missili, azionabili solo con mano occidentale: per il Cremlino, il loro uso equivale a un attacco Nato dall’avamposto ucraino. Il via libera dato senza dichiarazioni formali dalla Casa Bianca ha ottenuto la riforma della dottrina nucleare russa, in termini non così dissimili dalle modifiche apportate a quella Usa nel 2022. Ma la revisione, in verità, era in cantiere da oltre un anno, dopo che i B-52 americani in esercitazione simularono un attacco atomico su Kaliningrad, suggerendo una concezione first strike, superando la logica deterrente in vigore dalla Guerra fredda.
Considerando che Putin parla di responsabilità collettiva, per il Cremlino siamo in guerra. Non lo smentisce la risoluzione con cui l’Europarlamento caldeggia armi di lungo raggio, censura le iniziative diplomatiche (vedi Orbán e Scholz), esclude il negoziato e promette sostegno all’Ucraina sino alla vittoria. Vero è che l’assemblea non legifera, com’è vero anche che la Ue non ha la capacità industriale di rifornire senza limiti. E se si volesse scendere in campo, le analisi dicono che gli eserciti europei non reggerebbero i ritmi di consumo della guerra in atto. Tuttavia l’ipotesi dei vertici euroatlantici di convertire tutto il tessuto socioeconomico all’impegno bellico indica la direzione a spron battente verso lo scontro che si dice di voler prevenire. In questo clima è significativo che Merkel, dopo avere ammesso che gli Accordi di Minsk servirono a temporeggiare per armare l’Ucraina, ora cerca di sfilarsi dal tribunale della storia vantandosi del veto all’ingresso di Kiev nella Nato.
Ma perché Biden (o chi per lui) si accomiata superando l’ennesima linea rossa? Vale ancora quel che il segretario alla difesa Austin affermava sugli Atacms, i quali non cambiano le sorti del conflitto. Si tratta solo di sgambettare Trump? Forse il motivo dell’autorizzazione risiede nel voler salvare la faccia agli occhi degli alleati: non si dica che l’Ucraina è stata sedotta e abbandonata, senza tentare di tutto. Eppure sorprende il silenzio di Trump: la scelta escalativa complica lo sforzo negoziale annunciato in campagna elettorale. A meno che non si tratti di un assist dell’amministrazione uscente al fine di permettere quel che Trump ha promesso: costringere Kiev e Mosca a sedersi al tavolo, minacciando la prima di interrompere le forniture e la seconda di armare gli ucraini senza sosta. Tuttavia basta ragionare per capire che l’indisponibilità di entrambi bloccherebbe tutto, giacché i due ricatti si eliderebbero a vicenda. Forse è proprio l’incertezza a motivare il mutismo trumpiano.
Piuttosto, la leva sul Cremlino potrebbe collocarsi altrove. In Siria per esempio, ponte mediterraneo della marina russa verso l’Africa e i mari sudorientali. É chiaro il nesso originario tra il progetto atlantista sull’Ucraina (quindi sul Mar Nero, porta della flotta russa sul Mediterraneo) e lo sforzo ultradecennale di rovesciare Assad. Le vicende delle scorse ore qualche dato utile lo forniscono. Per entrare ad Aleppo i ribelli hanno impiegato tecniche e strumentazioni occidentali, nonché droni fpv in uso all’esercito ucraino. Inoltre rileva la presenza di jihadisti ceceni antirussi che da tempo fanno la spola tra Ucraina e Siria, assieme agli abboccamenti dei mesi scorsi – confermati da Kiev – tra il Gur ucraino e le milizie di al-Sham (Hts), in cui sono confluite formazioni alqaediste ed ex-Isis, che Erdoğan foraggia da anni.
É certo il ruolo della consueta ambiguità turca, visto il fuoco di copertura offerto ad Aleppo. L’attacco coincide con il naufragio dell’accordo tra Ankara e Damasco sulle zone che Erdoğan reclama al suo controllo, misconoscendo l’integrità territoriale siriana. Tuttavia ciò non esclude la ritrovata convergenza anti-Assad tra mire turche e piani Usa, cui concorre l’intenzione, comune a Biden e Trump, di disimpegnarsi dal settore non prima di averlo “sistemato”. Sulla tempistica dice alquanto anche la tregua tra Israele ed Hezbollah: mentre l’Idf riprende fiato, i libanesi sarebbero logorati nel tornare a difendere la Siria di Assad, che Tel Aviv non ha mai cessato di bombardare. Siria che è soprattutto l’anello di congiunzione tra l’Iran e l’Asse della Resistenza irradiato in Hezbollah, Hamas e sciiti iracheni. Insomma, ben più di due piccioni con la stessa fava. Ancora all’insegna di un gioco d’azzardo che collega le linee di faglia di diversi conflitti, riaccendendo micce per spegnere altri fuochi, sul corpo martoriato delle popolazioni coinvolte.
Giuseppe Casale*
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense