La morte di Giada e il rischio indifferenza. I fatti di Vigonza: dolore e incredulità non bastano più
Giada la giovane. Giada la mamma. Giada la compagna che avrebbe dovuto sposarsi salvo annullare le nozze. Giada che subiva maltrattamenti. Giada che era venuta da Brescia per stare con il compagno e il figlioletto a Vigonza, in via Prati.
È il suo il nome più pronunciato in questi giorni, non solo a Padova, ma in tutto il Paese. Tornano i giorni di Giulia, poco più di sei mesi fa, torna il dolore, con le domande che cadono nel vuoto (Perché? Come stanno davvero le cose? È vero che il colpevole è Andrea, il compagno?) senza trovare risposta. Ci ritroviamo ancora una volta ad analizzare i minimi dettagli di un tremendo fatto di cronaca, a farci trasportare dalle mille ipotesi investigative, in preda all’impotenza che simili drammi ci spalancano dentro. Ma davvero è tutto qui? La comunità di Vigonza ha pregato molto in questi giorni, nella messa domenicale, nella fiaccolata di lunedì sera (3 giugno), alla quale non ha voluto far mancare la sua presenza nemmeno Gino Cecchettin. Si è pregato per la vittima, per il presunto carnefice e soprattutto per il piccolo che – in qualche modo – lasciano entrambi, dopo aver chiesto per lui il battesimo un anno e mezzo fa e averlo iscritto alla scuola dell’infanzia parrocchiale: «Trovi mani che lo accolgano, adulti che lo proteggano e una comunità che lo aiuto a crescere», ha implorato il parroco, don Alessandro Spiezia, lunedì davanti ai 2 mila che si sono recati in raccoglimento fino al maledetto cavalcavia. Quella domanda tuttavia ritorna: davvero è tutto qui? Oramai abbiamo smarrito le cifre, non riusciamo più a tenere il macabro conto di omicidi e femminicidi che ogni settimana capitano nel nostro Paese. Il dolore e l’incredulità sono le più umane tra le reazioni, ma oggi non bastano più. Le cronache ce lo confermano: anche se non vogliamo crederlo, è possibile – se gli inquirenti lo confermeranno – che un giovane uomo getti la compagna da quindici metri d’altezza sulla sottostante autostrada provocandole un’orribile morte, in uno stato mentale che gli fa addirittura “dimenticare” il figlio, il suo bisogno di una madre per crescere, se possibile anche di una famiglia unita. Quante volte ci siamo chiesti, nell’ultima settimana: possibile che non ci fossero avvisaglie di un malessere tale da sfociare in un esito così grave? Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? C’è un fenomeno che forse non abbiamo ancora ben decodificato e che riguarda tutte le comunità cristiane e civili: l’anonimato. Siamo insieme e spesso siamo molti ma, in egual misura, non sempre ci conosciamo e ancor più di rado ci interessiamo gli uni degli altri. Abbiamo molti alibi per questo: la riservatezza, il rispetto della privacy, specie qui in Veneto si usa farsi gli affari propri, semmai i panni sporchi si lavano in famiglia. E tuttavia è proprio ciò se si innesta il virus dell’indifferenza. Ciò che si manifesta come attenzione per gli altri, finisce per sostanziarsi in lontananza, quando non addirittura in indifferenza. È ancora don Alessandro Spiezia ad aver trovato le parole giuste, nell’omelia di domenica, parlando di Giada, Andrea e del loro piccolo: «Mi chiedo se le loro vite e le loro storie avrebbero fatto presagire una fine così drammatica. Mi chiedo se le loro vite e le loro storia fossero state nutrite un po’ più del cibo delle relazioni, se chi magari viveva insieme con loro si fosse accordo della loro difficoltà, se loro stessi si fossero aperti. Col senno di poi è facile fare commenti, ma forse qualcosa di drammatico si sarebbe potuto risparmiare. E mi chiedo anche, come comunità cristiana e al di là di questa situazione particolare, quanto siamo attenti a tutte quelle situazioni di fatica e di sofferenza che incontriamo?». È proprio così. Ci sono situazioni in cui non basta delegare agli organi preposti, inviare ai servizi sociali o ad altri, ci sono momenti in cui siamo chiamati in prima persona a fare attenzione, a cogliere i segni. A elargire il buon «cibo delle relazioni», che fa crescere noi e gli altri, anche quando vivere insieme ci pare difficile, un impegno ulteriore in un’agenda che già scoppia. Perché no, non può essere tutto qui.