Due anni di guerra in Ucraina: il riarmo come volano della ripresa economica
Sono trascorsi giusto due anni e ancora si combatte in Ucraina, contando dall’invasione russa. Ed esattamente dieci dall’Euromaidan da cui sortì il conflitto tra Kiev e gli indipendentisti russofoni
Sono trascorsi giusto due anni e ancora si combatte in Ucraina, contando dall’invasione russa. Ed esattamente dieci dall’Euromaidan da cui sortì il conflitto tra Kiev e gli indipendentisti russofoni.
Naufragata la controffensiva, l’esercito ucraino arretra in ben cinque direttrici, ciò galvanizzando l’opposizione armata interna, che dà segni sabotando i depositi di armi e rivendicando l’attentato a un esponente di punta di Pravi Sektor.
Il flusso di dollari Usa è bloccato da dicembre, sicché ora lo Stato ucraino dipende unicamente dagli stanziamenti europei. Nonostante le nuove misure sul reclutamento forzato, la fanteria ormai è a corto di uomini e l’Occidente, con tutte le armi e i supporti logistici che soli consentono di restare sul campo, non dissimula granché il proprio coinvolgimento come parte belligerante. Anche perché aumenta il numero dei “foreign fighters” (siano essi presentati come volontari o mercenari) uccisi o catturati. Il grosso dell’iniziativa antirussa è ormai di fatto della Nato, i cui missili hanno ridotto di un terzo la flotta del Mar Nero, che ha a che vedere non tanto con le rivendicazioni territoriali di Kiev quanto con le proiezioni meridionali di Mosca, contrastate a far data dallo scoppio della guerra in Siria.
Eppure Zelensky annuncia una nuova controffensiva e nella conferenza stampa del G7 diffida gli sponsor euroatlantici, subodorando il rischio di accordi sottobanco per il cessate il fuoco. Non a caso, giacché in una recente esternazione Merkel era tornata suggerire un vago clima di svolta. Che però è stato presto travolto dal dibattito sulla morte “scomoda” (a seconda dei punti di vista) di Navalny, all’indomani dell’eclatante intervista di Carlson a Putin e a un mese dalle presidenziali russe. La temperie polarizzata ha così contrapposto chi rilancia sulla lotta senza quartiere alla tirannide del Cremlino e chi recupera le immagini del promotore xenofobo della Marcia russa tra lo sventolio di celtiche, le dichiarazioni antiucraine e gli spot elettorali pistola in mano e in camice da dentista nel sostenere la necessità di estirpare la carie della contaminazione etnica. Altri colgono nell’assassinio il messaggio di risposta all’invito della moglie di Navalny al vertice di Monaco, per dissuadere chi si presti ad alimentare all’esterno la dissidenza al regime, mentre c’è chi vede nell’omicidio un sabotaggio antiputiniano degli apparati interni. Non senza estensioni polemiche sul caso Assange, che da 5 anni nel carcere inglese attende l’estradizione negli Usa, dove rischia la condanna a 175 anni di galera ovvero la pena capitale per la rivelazione di segreti di Stato, divulgati quali crimini di guerra in Afghanistan e Iraq.
A soffiare sul fuoco anche la notizia data dal repubblicano Mike Turner, falco neocon antitrumpiano, su un’arma nucleare spaziale russa in grado di distruggere i satelliti Usa: mossa con la quale forzare i trumpiani a votare il pacchetto di 60 mld all’Ucraina, espunto dai restanti 35 destinati a Israele e Taiwan e bloccato dallo speaker alla Camera dopo il sì del Senato. Ma il gesto significa anche ammonire Trump rispetto a una futura distensione con la Russia. Dal canto suo il Tycoon, dichiarando in un comizio che non difenderà dalla Russia i Paesi Nato sotto quota 2% di pil in spese militari, conferma un’agenda che intende liberarsi del presidio in Medioriente (leggi Accordi di Abramo) ed Europa, delegandolo ai luogotenenti regionali per concentrarsi sul versante cinese senza aggravare il debito pubblico. Tuttavia l’esigenza di rilanciare l’industria nazionale vieterebbe di penalizzare il ruolo trainante delle commesse nel comparto bellico. Sicché spingere i gregari europei al riarmo risulterebbe doppiamente profittevole, poiché un aumento di spesa nel settore uniformato agli standard a stelle e strisce si tradurrebbe in maggiori acquisti europei di armamenti, tecnologie e brevetti Usa, nonché in attrazione di investimenti mediante i grandi fondi finanziari che fanno base oltreoceano.
In vista del dopo-Biden, il messaggio è arrivato forte e chiaro in Europa, intercettandone la tentazione di fare di necessità virtù. Mentre Draghi, interpellato a Gent da von der Leyen, ha espresso la necessità di reperire capitali privati per finanziare le sfide Ue, a margine del vertice di Monaco Stoltenberg e Michel hanno affermato che non esiste un piano alternativo alla guerra a oltranza per la vittoria ucraina, con la soddisfazione di vedere presto i membri Nato con una spesa oltre soglia 2% passare da 3 a 18.
Il riscontro della Germania poi è significativo: nell’economia che più di altre in Occidente patisce i contraccolpi della guerra, l’allarme per la deindustrializzazione ha spinto i capitali nazionali a migrare negli Usa, con un volume raddoppiato nello scorso anno. Gli incoraggiamenti del ministro Pistorius al riarmo avvalorano l’economia di guerra come volano della ripresa, mediante la sponda del complesso militare-industriale euroatlantico, facendosene mercato di sbocco. Il tutto mentre è in corso la Steadfast Defender 2024, la più estesa l’esercitazione Nato dal 1988, irradiata in operazioni che collegano Scandinavia e Romania ponendo proprio Germania e Polonia a baricentro longitudinale di un ipotetico intervento.
Il tentativo è sublimare il protrarsi della guerra in opportunità di svolta, nel perimetro di un’interdipendenza coatta dettata da un mondo sempre più armato, che investe su inimicizia e tensione. Con buona pace dei propositi confezionati alla fine della Guerra fredda.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense