L’Italia ora corre veloce, ma sa dove andare?
L’uscita dal lockdown rischia di riprodurre, perfino ingigantiti, gli stessi limiti di un modello di sviluppo basato sul consumo di suolo e sulle grandi infrastrutture che già prima mostrava tutti i suoi limiti
L’Italia veloce del post-virus, com’è stata battezzata dalla politica nazionale, giunge dopo “l’Italia ferma” per la chiusura del lockdown.
Dal fermo generale all’accelerazione improvvisa, come se una macchina rimasta ferma venisse sparata di botto ai 200 all’ora. Così si riafferma lo “Stato emergenziale” cui ci hanno abituati nell’ultimo decennio, dove tutto è servito all’ultimo momento e alla massima velocità, senza usare quella forma precauzionale e strumento di saggezza gestionale chiamata pianificazione del futuro nostro. Se accettiamo la spinta a razzo, almeno c’è da sperare che si sappia dove stiamo andando. “L’Italia veloce” saprà dove arrivare? O ricadiamo nel solito ineffabile atteggiamento delle cose fatte e servite all’ultimo momento, giustificando così ogni tipo di scempio o intervento?
Incognite che cadono come macigni sulle nostre teste, con il sacro timore che serve quando si respira l’incertezza sempre più greve sul nostro futuro. Oggi magnificano le nuove opere al grido: «L’Italia veloce delle grandi opere». Infrastrutture. Strade e chissà quanto ancora, nel nome di uno sviluppo che appare del tutto fuori controllo. Pensiamo al nuovo, mentre a caderci in testa è il vecchio che non manuteniamo.
Osanniamo l’ambiente come “attrazione turistica”, mentre continuiamo a sfregiare l’anima del paesaggio nazionale. L’esempio ultimo ci arriva dal cuore delle Dolomiti (in foto), oggetto e soggetto delle Olimpiadi invernali del 2026, dove sotto le Cinque Torri è stata appena realizzata l’ennesima – inutile – pista da sci. Da qui al 2026 ne passerà ancora di tempo. Scommettiamo che di scempi ne vedremo ancora tanti!? Saranno però “scempi veloci, come l’Italia della velocità” che rischia di sfracellarsi definitivamente.