Coronavirus. Quello che i simboli e le paure ci dicono
Se il coronavirus ci sta costringendo a rivedere il nostro stile di vita, dovremmo dedicare altrettanta attenzione ai rischi legati al cambiamento climatico. Serve una transizione fatta di piccoli cambiamenti
Mai e ripetiamo “mai” l’umanità ha vissuto un momento di contagio come questo. Dipende però da che punto di vista si guarda la storia. Oggi anche i virus si avvantaggiano della “globalizzazione” umana col suo alto indice di profitto commerciale. Così dopo le prime vittime e i casi di contagio in tutto il nostro Paese, ecco servita la fobia. In primis quella da “supermercato” che tutti abbiamo visto.
Eppure, secondo il Climate index risk, negli ultimi vent’anni i fenomeni meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico hanno causato 500 mila vittime nel mondo. L’Oms stima che tra il 2030 e il 2050 la crisi del pianeta ne provocherà altre 250 mila ogni anno. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è la causa di circa 80 mila decessi l’anno. E i ricercatori dell’Ipcc calcolano che entro il 2100 le perdite dovute all’emergenza climatica oscilleranno tra gli 8,1 e i 15 trilioni di dollari.
Lo scenario è concretamente apocalittico perché scientifico, ma a tutt’oggi non c’è stata una reazione altrettanto forte. Perché? «Perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone» è la risposta sociologo dell’ambiente Giovanni Carrosio dell’Università di Trieste. Alla “costruzione sociale del rischio” concorrono tantissimi fattori: «La scienza e la fiducia che le persone ripongono in essa giocano un ruolo chiave, ma lo stesso fanno elementi simbolici, irrazionali».
E di simboli l’epidemia del coronavirus ne ha riesumati molti dal passato, compreso quello della “precarietà della nostra esistenza”. Siamo quindi all’incertezza del vivere? «L’unico modo per rendere meno dolorosa questa svolta – sottolinea Marco Bagliani, docente di Cambiamento climatico, strumenti e politiche all’università di Torino – sarebbe una «transizione socialmente desiderabile». Cioè «non una rinuncia totale, ma un cambiamento frammentato in piccoli traguardi che si portino dietro anche miglioramenti della vita e delle condizioni sociali». Le domande e i dubbi non mancano. Le risposte invece tentennano, mentre le paure dilagano e i simboli resuscitano dalla polvere… come ai tempi del virus che stiamo vivendo.