Globalizzazione verde frenata da un canale. Cosa deve far pensare il blocco del Canale di Suez
Il Canale di Suez, in particolare, appare come essenziale per l’intero mercato mondiale delle materie prime agricole già in tensione.
L’agroalimentare globalizzato si è fermato per giorni a causa di una nave messa per traverso nel Canale di Suez. Paradosso della modernità che, così come per il resto dell’economia, ha colpito anche il comparto della produzione di alimenti.
Suez significa moltissimo anche per l’agroalimentare nazionale. Stando alle considerazioni che sono state svolte da Coldiretti, sarebbe proprio lungo quella via il percorso principale delle merci alimentari (e non solo) che dalla Penisola si dirigono verso l’Asia e la Cina in particolare. Mercati promettenti, visto che, solo nei primi mesi di quest’anno le vendite in quell’area avrebbero fatto registrare un balzo del +41%.
Per capire ancora meglio, basta tenere conto di quanto efficacemente spiegato da Luca Lanini (professore di logistica e supply chain management, presso la facoltà di Economia e Giurisprudenza di Piacenza), sulle pagine del Corriere Ortofrutticolo: “La principale rotta commerciale del mondo, tra Singapore e Rotterdam, si fa via Suez in circa 30 giorni medi (dipende dal numero delle soste intermedie), ossia almeno 10 giorni e 6 mila chilometri in meno rispetto al giro dal Capo di Buona Speranza in Sudafrica. Questo spiega perché da qui passa il 12% del traffico commerciale mondiale, il 30% delle navi del mondo con a bordo il 40% di tutto l’import-export del pianeta”. Senza dire che sempre da Suez passa circa il 40,1% del nostro commercio marittimo passa per il canale, con un valore di 82,8 miliardi di euro nel 2020.
Se si guarda poi all’agroalimentare, il blocco di Suez ha fatto capire ancora una volta quanto siano strategici alcuni snodi geografici. Il Canale, in particolare, appare come essenziale per l’intero mercato mondiale delle materie prime agricole già in tensione, fa notare ancora una volta Coldiretti, per effetto della pandemia con i prezzi che hanno raggiunto a livello mondiale il massimo da quasi sette anni trainati dalle quotazioni in aumento per zucchero, oli vegetali, cereali, latte e carne.
Insomma, la globalizzazione dell’economia, pare che alla prova dei fatti si dimostri fragile e legata ad una geografica fisica che più di tanto non può essere piegata dall’uomo. Una condizione che proprio per l’agroalimentare deve far pensare, e molto. Oltre ai condizionamenti del clima e dell’essere “fabbrica verde a cielo aperto”, l’agricoltura deve comunque sempre fare i conti anche con la geografia. Anche se proprio in questi ultimi tempi, il valore “strategico” della produzione agroalimentare è stato più compreso di una volta. Una circostanza che deve essere tenuta in gran conto, soprattutto oggi e specialmente di fronte ad un dato importante fatto rilevare qualche giorno fa dai coltivatori diretti: per la prima volta dopo anni, le esportazioni agroalimentari italiane hanno superato le importazioni. Detto in numeri, infatti, nel 2020 le vendite oltre confine hanno raggiunto il valore da primato di 46,1 miliardi con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente, mentre gli acquisti di prodotti alimentari dall’estero si sono fermati a 43 miliardi. “Una svolta – ha sottolineato Coldiretti -, che offre grandi opportunità al Made in Italy dopo che a causa di decenni di sottovalutazione l’Italia ha accumulato un deficit produttivo di autoapprovvigionamento pari al 25% dei consumi a tavola, dalla carne al latte fino ai cereali e fatta eccezione solo per vino, frutta e carni avicole”. Sempre che la geografia, le guerre commerciali, i grandi movimenti internazionali e gli errori umani, come pare sia accaduto a Suez, non si mettano contro.