Ascensione, contemplazione – ben oltre la semplice comprensione – di un amore infinito

Il Dio di Gesù non ha bisogno di adepti, né tanto meno di acquirenti che hanno fiutato l’affare; Gesù cerca amici, cerca fratelli da ricondurre al Padre

Ascensione, contemplazione – ben oltre la semplice comprensione – di un amore infinito

L’Ascensione di Nostro Signore non è una solennità che si presta ad essere compresa facilmente. Questo passaggio che vede Gesù Risorto elevato in cielo può apparirci troppo distante dai parametri esclusivamente razionali con cui siamo abituati a leggere la realtà. All’inizio del libro degli Atti, la stessa esperienza mistica è narrata dal punto di vista degli Apostoli: “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. (Cfr. At 1, 9-11). Vi immaginate se questa scena avvenisse, oggi, che so, in piazza San Pietro? Eppure ha molto da dirci su come vivere i nostri giorni. Non sappiamo più guardare in alto, al cielo, luogo dei desideri per antonomasia. Non sappiamo camminare guardando verso la cima, la vetta, come quegli escursionisti improvvisati, succubi della loro stessa fatica, che arrancano guardando per terra, piegati dal peso del loro zaino. La Liturgia dell’Ascensione ci invita, invece, a metterci in posizione eretta, nella postura di chi si sente amato, salvato e può contemplare che Gesù, elevandosi, eleva ciascuno di noi, secondo le parole della preghiera di Colletta: “nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”. Qualcuno potrebbe chiedersi perché il Risorto non è rimasto sempre sulla Terra, perpetuando quanto hanno sperimentato i Dodici, durante apparizioni che abbiamo rivisitato nelle scorse domeniche… Eppure non si tratta di un malinconico addio, Cristo sale al Padre e così può lasciare lo Spirito che sarà protagonista a breve con la Pentecoste. Cristo sale al Padre – con le parole di Paolo agli Efesini nella seconda lettura – per essere pienezza di tutte le cose, perché tutto sia ricapitolato in Lui e noi possiamo abbracciare ogni istante, ogni realtà, soprattutto ogni incontro, come pienamente redento dalla Sua morte e resurrezione.

È qualcosa di tanto vero quanto ineffabile, per cui le parole non sono esaustive: bisogna affidarsi alla poesia, come quella di Simone Cristicchi quando nella splendida Lo chiederemo agli alberi invita ad accorgersi in un momento si essere parte dell’immenso, di un disegno molto più grande della realtà.

Quello di cui potremmo convincerci – e sarebbe la testimonianza più efficace, molto prima e di più di tante catechesi fatte di parole – è che essere cristiani è bello! Essere cristiani può renderci felici già oggi, pur caricandoci ciascuno della croce che nessuno, tanto meno Dio, ci ha mai promesso di toglierci dalle spalle. La vita è una lotta, perché non tornare a proporre ai nostri figli questa verità? Una lotta contro i vizi, contro il peccato che fa parte di noi, contro tutto quello che non appartiene alla gioia del cielo (un’altra espressione della liturgia) a cui Cristo vuole farci arrivare. La vita cristiana ha una dimensione agonistica, ma a patto che in ogni istante ci ricordiamo che “senza di Lui non possiamo fare nulla”! La sequela non è una gara, prima di tutto perché non è necessario vincere, né arrivare primi; eppure, l’esistenza seguendo Gesù non può essere proposta senza prospettare una meta, se vogliamo usare questa espressione, anche un premio.  Forse abbiamo annacquato troppo tutto quello che il Vangelo non ha mai taciuto; forse, temendo che l’offerta sia trascurata e noi stessi rifiutati, continuiamo a farci e a fare sconti per svendere la buona notizia perché l’accolga un numero di persone sufficiente a soddisfare le nostre grette aspettative… Ma il Dio di Gesù non ha bisogno di adepti, né tanto meno di acquirenti che hanno fiutato l’affare; Gesù cerca amici, cerca fratelli da ricondurre al Padre e per questo – sempre con le parole della liturgia dell’Ascensione – lo preghiamo che susciti in noi il desiderio del cielo, dove ha innalzato l’uomo accanto a Lui nella gloria.

In questa contemplazione, però, l’azione è intrinseca, non possiamo bearci da soli di questa sovrabbondanza di Grazia – ricordate? – non è possibile fraintendere il mandato, non possiamo permetterci di “fare tre tende” e goderci la scoperta del cielo in un campeggio privato in cui nessuno, a valle, ci possa disturbare. Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato (Mc 16,15). Sono queste le parole immediatamente prima della sua ascensione e da allora non possono essere eluse. Proprio perché la sua redenzione è per tutti – non solo per noi – dal primo giorno della nostra consapevolezza fino all’ultimo respiro, noi andremo e annunceremo che in Lui tutto è possibile – come recita un altro commovente canto. Proclamare il Vangelo non è pianificare campagne di proselitismo, né tanto meno ingaggiare crociate anacronistiche (se mai ve ne siano state legittime!). Annunciare il Vangelo vuol dire semplicemente amare e amare tutti affinché tutti credano di essere amati da un solo Dio che – sempre con le parole di Paolo agli Efesini – è Padre di tutti, è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. Allora anche l’espressione sarà condannato riferita a chi non crederà (e non sarà battezzato) non deve farci tremare al punto da non avere neanche più il coraggio di pronunciarla. La condanna di cui parla Gesù è quella di chi non si apre alla possibilità di una pienezza di gioia che Cristo ha desiderato e desidera, con il Padre nello Spirito, così profondamente da aver versato il suo sangue per ciascuno di noi, come fosse il suo unico fratello. Non ho la percentuale in proporzione a quanto lo ripeta, forse eccessivamente, ma la fiducia nell’amore di Dio si gioca tutta nella misura in cui sappiamo riconoscerne la natura filiale. Che la nostra esperienza famigliare sia stata idilliaca o tragica, è a quella radice iscritta nel nostro animo, è tornando a quell’essere tutti inevitabilmente figli che possiamo accedere alla contemplazione – ben oltre la semplice comprensione – di un amore infinito e che ci invita a non desiderare niente di meno che una vita eterna.

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Fonte: Sir