Ong sotto accusa. Medici senza frontiere: «Noi salviamo vite umane, il resto non conta»
«Fino a poco tempo fa le Ong erano acclamate per un lavoro coraggioso, mentre oggi sono anche osteggiate». Gabriele Eminente, direttore di MSF Italia, racconta il lavoro prezioso di Medici senza frontiere che, presenti in 70 Paesi, oggi subiscono l'attacco di chi non vuole le ONG impegnate nel soccorso delle "carrette del mare". Eppure solo nel 2016 sono cinquemila le persone annegate nel tentativo di raggiungere l'Europa.
L’appuntamento con i volontari di Medici senza Frontiere è nel Giardino dei Giusti a Padova.
Un luogo simbolo per ricordare come si può reagire all’orrore, cosa è accaduto ieri e cosa accade oggi. «Un luogo che evoca persone che hanno avuto un ruolo positivo nella storia. La sintonia è evidente, soprattutto oggi che sentiamo cambiata la percezione del nostro lavoro nell’opinione pubblica. Fino a poco tempo fa le Ong erano acclamate per un lavoro coraggioso mentre oggi sono perfino osteggiate» spiega Gabriele Eminente, direttore di Msf Italia.
L’associazione in oltre 45 anni di storia ha visto i propri volontari cacciati da diversi paesi, accusati di collusioni con una parte o con l’altra nei conflitti: «le polemiche e le accuse non ci spaventano, ci siamo abituati».
Perché questo clima di sospetto nei confronti delle Ong?
«Oggi abbiamo due problemi: da una parte vedere riconosciuto il nostro ruolo di associazione indipendente e imparziale in contesti in cui abbiamo a che fare con soggetti non governativi che questo ruolo non lo riconoscono; dall’altro lato, obiettivamente, ci scontriamo con l’ostacolo di lavorare su alcuni temi difficili, dalla “sensibilità politica” molto alta, come quello dell’immigrazione, anche se noi facciamo quello che abbiamo sempre fatto e che è la nostra ragione d’essere: siamo medici, salviamo vite.
Ma l’aria è cambiata. Fino a tempo fa eravamo riempiti di complimenti e congratulazioni che riconoscevano l’importanza di questo lavoro, da qualche mese non è più così. Un atteggiamento forse collegato con gli appuntamento elettorali europei, per cui il clima politico è avvelenato da polemici sterili. Ci accusano di collusione con i trafficanti di uomini, di portare le persone in pericolo solo nei porti italiani. Tutti sanno che la nostra attività è svolta in stretto coordinamento con la Guardia costiera: loro ci dicono dove andare e cosa fare, chi andare a salvare e dove portare le persone salvate. La Guardia costiera fa il proprio lavoro e noi facciamo il nostro: salvare vite. Nel Mediterraneo l’anno scorso 5.000 persone hanno perso la vita».
In questo scenario geopolitico, muoversi è più complesso anche per i medici di Msf?
«Quello che più ci preoccupa è la progressiva erosione di conquiste fondamentali, che i principi di base siano costantemente messi in discussione e che e la minaccia di nuove guerre si sovrapponga a guerre che durano da anni. In questo periodo tutto è più complicato. Da sempre una parte fondamentale del nostro lavoro è la gestione dell’accesso, ovvero la necessità di essere riconosciuti in quanto organizzazione indipendente e imparziale, e questo avviene in molti modi. In zone remote le persone con cui entriamo in contatto non capiscono con chi hanno a che fare e questo problema si pone oggi in molti conflitti dove non ci sono soggetti governativi.
L’abbiamo già vissuto e abbiamo imparato a gestirlo: ci è successo in Siria nel 2014, quando due di noi furono rapiti, è successo con i talebani in Afghanistan, con le Farc in Colombia. Non è un processo stabile, ma fa parte del nostro lavoro. L’elemento potente è che il nostro modello di lavoro tipico prevede che lavoriamo fianco a fianco con una persona locale: 20 “stranieri” affiancano duecento locali. Il nostro valore è dato dalla forza e dalle risorse che ci trasmettono i nostri sostenitori: chi si informa, chi ci aiuta, chi sceglie di lavorare sul terreno. Nel 2016 le partenze di operatori italiani sono state 402 verso 70 contesti: più di una partenza al giorno verso situazioni difficili. Ne siamo orgogliosi».