«Noi eritrei, in fuga perché vogliamo vivere»
La tragedia del popolo eritreo, sottoposto da 25 anni a una feroce dittatura. Ma il viaggio attraverso il Sinai si trasforma in un inferno, come ha raccontato Fessaha Alganesh, medico di origine eritrea, naturalizzata italiana, che da quasi vent’anni si occupa di immigrazione, nell'ultimo incontro del ciclo promosso dall'Azione cattolica del vicariato di Agna su migrazioni e accoglienza.
Migrazioni e accoglienza sono i due temi affrontati dall’Azione cattolica del vicariato di Agna in un percorso in tre tappe.
Dopo il film Io sto con la sposa e un incontro di ascolto dei rifugiati residenti ad Arzercavalli, nell'ultima tappa del progetto l’attenzione si è focalizzata sulla storia di Fessaha Alganesh, medico di origine eritrea, naturalizzata italiana, che da quasi vent’anni si occupa di immigrazione.
La sua testimonianza ha messo in luce i motivi che spingono tanti giovani eritrei, tra i 18 e i 34 anni, ad abbandonare il loro paese in un viaggio rischioso attraverso il deserto e il mare.
«Gli eritrei scappano perché vogliono vivere – spiega Fessaha – il loro paese infatti è sotto un regime dittatoriale da 25 anni. Il governo impone il servizio militare dai 16 anni in su per un tempo indeterminato che potrebbe durare fino alla vecchiaia. Le ragazze, nel periodo di leva, subiscono abusi sessuali da parte dei loro superiori e, in caso di gravidanza, sono costrette ad abortire senza nessuna assistenza».
I giovani eritrei, a cui è negato il diritto di disporre del proprio futuro, cercano quindi di costruirsi una vita altrove; ma molti di loro, nella fuga verso il Mediterraneo o Israele, cadono nelle mani dei trafficanti del Sinai.
Nella penisola egiziana intere di tribù di beduini hanno creato una rete criminale che si arricchisce sulla pelle dei migranti. Questi ultimi vengono rinchiusi in cantine e sottoposti a feroci torture: plastica fusa sulla pelle, percosse, scariche elettriche, abusi sessuali.
«Durante le violenze – racconta Fessaha – i sequestratori spesso contattano al telefono i parenti delle vittime per convincerli a pagare il riscatto. Io stessa ho scoperto questo traffico, dichiarato dall’Onu il peggiore a memoria d’uomo, ascoltando le urla disperate degli ostaggi».
Pagare il riscatto, tuttavia, non significa automaticamente la liberazione dei prigionieri. Anzi, in molti casi questi vengono uccisi lo stesso per prelevare gli organi da vendere in Occidente.
Nel deserto del Sinai, Fessaha dice di aver trovato 850 cadaveri, privi di cornee, reni e fegato. Per porre fine a questo abominio, la ong Gandhi – associazione da lei fondata nel 2003 – mobilita tutte le proprie risorse, avvalendosi dell’aiuto di uno sceicco musulmano e di alcuni beduini locali. L’obiettivo primario è liberare i migranti dalla condizione di schiavitù per poi inserirli in un contesto dignitoso. I volontari della ong sperano infatti un futuro sedentario per il popolo eritreo, un progetto a cui stanno già dando vita grazie alla costruzione di un campo profughi in Etiopia, dedicato ai bambini.
Un altro grande passo in avanti sarebbe la creazione di un corridoio umanitario in modo da aggirare l’ostacolo del Sinai.
Questo permetterebbe ai migranti l’ingresso legale sul territorio italiano e la possibilità di chiedere asilo. Se la gestione dei flussi migratori dipende soprattutto dagli accordi politici fra le nazioni, nell’accoglienza conta invece il contributo di ciascuno. «Decidere se accogliere oppure no è già un gesto che fa la differenza» – afferma Fessaha Alganesh, a conclusione di un incontro denso di umanità e improntato alla consapevolezza.