Migranti e Eurotunnel: il paradosso della post-modernità
Ben 37 mila migranti dall'inizio dell'anno hanno tentato la traversata del gioiello ingegneristico che dal 1994 collega Parigi a Londra in poco più di due ore. L'Inghilterra è il sogno di molti dei disperati che sbarcano sulle nostre coste, attraversano la Penisola con mezzi di fortuna per assieparsi a Calais, dove la gendarmeria francese non riesce più a controllarli. Sono due le lezioni che provengono da questa vicenda: da un lato, i singoli paesi non sono in grado di gestire un fenomeno come quello migratorio in atto; dall'altro, muri, steccati, reticolati, persino mari, non basteranno a fermare la massa di disperati. Serve una politica comunitaria di accoglienza.
Dal 14 novembre 2007, bastano 2 ore e 15 minuti per percorrere gli oltre 500 chilometri che separano la stazione di Paris Nord da London St. Pancras International. E tutto questo è possibile grazie al tunnel della Manica. Quando fu completato nel 1994 fu presentato al mondo intero come un vero e proprio fiore all’occhiello europeo della ingegneria civile. È una galleria ferroviaria lunga oltre 50 km. È il tunnel con la parte sottomarina più lunga al mondo e, nella sua lunghezza complessiva, è secondo solo alla galleria Seikan in Giappone.
Estate 2015. Il tunnel della post-modernità diventa un girone infernale. I migranti africani che l’Italia ha visto con pena transitare lungo la penisola, da Lampedusa e Ventimiglia, ora tentano il tutto per tutto per raggiungere il sogno finale, la meta da sempre agognata: Londra. I numeri sono sconvolgenti: da gennaio di quest’anno sono almeno 37 mila i migranti che sono stati bloccati nel tentativo di attraversare l’Eurotunnel. Solo nella nottata tra il 28 e il 29 luglio almeno 1.500 migranti hanno cercato di entrare nel Tunnel a Calais, e sono stati respinti. Nel caos sarebbe morto un sudanese tra i 25 e i 30 anni, colpito da un camion in transito. Ma i morti dal mese di giugno sono nove.
Hollande e Cameron si trovano di fronte ad una sfida comune. Per ora le risposte alla crisi sono tentennanti e la pressione dell’opinione pubblica inglese e francese si fa di giorno in giorno sempre più forte. Il premier britannico David Cameron convoca una riunione d’emergenza a Londra. Hollande e il primo ministro francese assicurano l’impegno del governo per garantire la sicurezza al porto di Calais ma le forze dell’ordine francesi hanno difficoltà a pattugliare l’intero terminal, con un’area di 650 ettari e una recinzione lunga 28 chilometri.La vicenda di Calais in questa estate torrida lascia almeno due messaggi all’Europa che verrà. Il primo è che i singoli Paesi non possono essere lasciati soli a gestire un fenomeno come quello migratorio e l’Europa deve dare prova di essere all’altezza di ciò che è e cioè un’unione solidale che sa condividere oltre che ricchezze e opportunità anche oneri e problemi. L’altro messaggio è che tunnel, varchi, fili spinati, estese di mare non bastano a fermare l’onda migratoria. C’è gente là fuori disposta a tutto, anche a rischiare la propria vita, pur di arrivare là dove vuole arrivare. E allora l’unica alternativa possibile non passa attraverso le pattuglie armate né erigendo muri e steccati ma richiede una politica europea di accoglienza ragionata e condivisa e un impegno di diplomazia internazionale competente capace di agire alle origini delle migrazioni, sostenendo i Paesi di provenienza nel difficile compito di dare una risposta di futuro possibile ai giovani che oggi decidono di partire.