ColtiviAmoci, la biofattoria di Tombelle dove si coltiva un mondo migliore
A Tombelle di Vigonovo c'è una biofattoria che punta tutto su un modo alternativo di "crescita" più rispettoso dell'ambiente, anche prendendosi cura delle persone.
Il rispetto per la terra e quello per le persone non sono principi molto distanti l’uno dall’altro. E sono i principi sui quali si basa la biofattoria ColtiviAMOci, che a Tombelle di Vigonovo offre ortaggi biologici in 1,8 ettari circa, parzialmente coltivati, un orto didattico con varietà antiche, il giardino delle erbe aromatiche, con una struttura a spirale realizzata secondo i metodi dell’agricoltura sinergica, alcune arnie create sia per ampliare il percorso didattico che per la produzione del miele, 2 mila metri quadrati di vigneto, la metà da vino e l’altra metà da tavola.
Ma quello che offre soprattutto questa fattoria è l’armonia di una realtà fondata sull’amore per la terra e sostenuta dalla ricerca di un modello di crescita alternativo. L’anima di questa realtà è Laura Torresin, che ha preso in mano la vecchia fattoria dei nonni per darle nuova vita. E ai nomi dei nonni si è ispirata per il nome dell’associazione Casa MarAs, fondata per condividere le finalità del suo progetto, attraverso corsi, seminari ed eventi per divulgare la conoscenza di pratiche rivolte al benessere dell’individuo e alla salvaguardia dell’ambiente.
Valori che Laura ha avuto modo di approfondire studiando scienze naturali e laureandosi con una tesi magistrale in etnobotanica sull’utilizzo delle piante di una popolazione indigena dell’altipiano boliviano. E proseguendo gli studi con un postgrado in agroecologia a Barcellona. Studi che l’hanno sempre influenzata nelle sue scelte, improntate ai principi della permacultura: un sistema integrato di progettazione dei terreni auto-perpetuante, quindi permanente, perché mima gli schemi e le relazioni presenti in natura per produrre cibo, fibre ed energia in grado di soddisfare i bisogni locali.
Questi principi hanno portato qui Amadou dal Mali e Mohammed dal Gambia, due migranti che lavorano al fianco di Laura, Andrea, di origini feltrine, che lavora e vive nella fattoria, e dei volontari del circuito Wwoof (World-wide ppportunities on organic farms), l’organizzazione che mette in rete le fattorie biologiche per permettere, a chi lo desidera, di dare il proprio contributo in cambio di vitto e alloggio.
Giunti entrambi attraverso la Libia, Amadou e Mohammed tengono molto a quello che fanno e lavorano sodo, ma non sono riusciti a entrare nello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Nel nord del Mali, Amadou coltivava miglio e arachidi, su un terreno accanto al fiume, dal quale attingeva acqua con un’autopompa. I metodi erano diversi, ma qualcosa in comune la sua realtà d’origine e questa ce l’hanno. Qui si fa quasi tutto a mano. Le uniche “macchine” sono un trattore per la lavorazione del terreno, un estirpatore, un erpice e un motocoltivatore. Inoltre qui non si ara, perché le pratiche colturali in agroecologia non lo prevedono. Le galline danno le uova e la pollina viene usata per concimare l’orto e per i terreni si usano i macerati e il compost.
Si fa vendita diretta dei prodotti biologici e di trasformati come pesti, passate di pomodoro e salse. La struttura è dotata di due sale e di una cucina professionale dove si tengono anche dei corsi. Ma dietro questo impegno c’è un lavoro duro. «Non sono realtà facili – conclude Laura Torresin – ci sono molti freni burocratici e all’inizio poche soddisfazioni. Ma le realtà come questa sono dotate di una grande potenzialità: contribuire a dare importanza ad economie alternative e solidali. Certo, è una goccia nell’oceano». È la stessa idea che ha ispirato Pierre Rabhi, pioniere dell’agroecologia, oltre che poeta e filosofo, per fondare il movimento dei Colibrì: la leggenda narra che un giorno la foresta fu devastata da un terribile incendio e gli animali, terrorizzati, rimasero ad osservare. Solo il più piccolo tra loro, il colibrì, cominciò a prendere delle gocce d’acqua dal fiume col becco, per gettarle sul fuoco. E all’armadillo, che lo derideva, rispose semplicemente: «Faccio la mia parte».