Libia: la vittoria sull’Isis e la pace sono ancora lontane
La vittoria sull'Isis in Libia è ancora lontana e la situazione di caos, instabilità e violenza dureranno ancora molto. Gli italiani, con i jihadisti alle porte di casa, non possono dormire sonni tranquilli ma nonostante ciò l'Isis sembra manifestare segni di declino in Medio Oriente. Inoltre il conflitto libico sembra avere maggiori possibilità di soluzione rispetto alla Siria e all'Iraq. È il parere di Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali.
Dal 12 maggio scorso, con l’appoggio dei governi occidentali, le truppe del governo di accordo nazionale di Fayez al Serraj hanno posto sotto assedio Sirte, dove sono asserragliati migliaia di combattenti dell’Isis.
Anche i gruppi fedeli al generale Haftar li combattono. Un livello di violenza atroce, con centinaia di vittime sul campo, decapitazioni, prigionieri uccisi e jihadisti che, al momento della cattura, si fanno esplodere con le cinture esplosive.
È il tipico “conflitto a bassa intensità” (secondo la terminologia militare) condotto con armi vecchie, anche a causa dell’embargo. Nonostante ciò, la vittoria sull’Isis in Libia è ancora lontana e la situazione di caos, instabilità e violenza dureranno ancora molto.
È quanto pensa Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali, che insieme ad altri analisti ha curato di recente uno studio sulla crisi libica per il Parlamento italiano.
Cosa sta accadendo veramente a Sirte?
Oggettivamente la situazione non è molto chiara. È vero che nessuno in Libia ama l’Isis, però il motivo reale dell’attacco da parte delle truppe di Misurata che fanno capo a Serraj e delle milizie del generale Haftar che fanno capo a Tobruk non ha come obiettivo primario l’Isis ma la legittimazione nei confronti dell’Occidente, per garantire alla propria parte una posizione politica di preminenza. Se Haftar riuscisse a scacciare l’Isis certamente gli Stati Uniti, l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna non potrebbero essere indifferenti nei confronti del suo governo.
Il problema di Serraj è che il suo governo non ha avuto il consenso che ci si aspettava.
Serraj ha proposto di fare un unico comando militare per combattere l’Isis ma non gli è riuscito. Tutti combattono volentieri l’Isis ma ognuno per conto suo. Il motivo è di acquisire meriti nell’ambito del contrasto politico che li divide.
Quali le ripercussioni sulla popolazione civile?
La situazione è meno terribile che a Raqqa e Falluja ma certo i pochi civili rimasti intrappolati a Sirte non se la passano bene. È un conflitto un po’ spietato, sia dal punto di vista umanitario, sia dello scontro.
La vittoria sull’Isis è ancora lontana?
Io penso di sì. Il motivo principale non è tanto militare quanto politico. Se fosse un attacco condotto da un esercito nazionale con dietro una coesione politica e un governo unito sarebbe più risolutivo. Invece in Libia l’Isis viene combattuto da due governi che si contrappongono, per cui è una battaglia strumentale. La sconfitta dell’Isis non ha un senso militare definitivo.
Il generale Haftar assedia Bengasi da due anni e ancora non è riuscito a ripulirla completamente. Non so cosa accadrà a Sirte ma anche se fosse liberata completamente l’Isis si riformerebbe da qualche altra parte. Perché non esistono le condizioni politiche per marginalizzarlo veramente. In Iraq e Siria è molto difficile perché c’è un problema di scontro settario, in Libia questo problema non c’è. Ma se esistesse un governo unico, coeso, l’Isis sarebbe rapidamente marginalizzato.
Sconfiggere i jihadisti a Sirte non ci mette al riparo dai rischi di atti terroristici in Europa?
No, non ci mette al riparo perché o in Libia si trova una soluzione politica o l’Isis continua a circolare. Certo sconfiggerli a Sirte sarebbe importante. Ma una conquista completa non significa averlo eliminato. Quindi i rischi all’esterno sussistono. Anche se il terrorismo in Europa non è legato tanto all’Isis libico quanto all’Isis in Medio Oriente.
In pratica l’Italia ha l’Isis alle porte di casa: c’è da preoccuparsi?
Sì anche se attualmente l’Isis è più preoccupato a combattere nei propri territori. Hanno dei punti d’impatto in Francia e Belgio, in Italia penso meno. Ma il rischio c’è. Anche se, mettendo tutte le tessere insieme, sembra che l’Isis sia duro a morire, pur essendo in declino. Non c’è dubbio.
Perché pensa che sia in declino?
Da quello che sta succedendo in Medio Oriente. L’Isis è stato messo alle strette perché ci sono stati una serie di cambiamenti che hanno consentito all’Iraq di combattere. In Siria ci sono stati dei cambiamenti: l’ingresso dei russi, i curdi. Sono alle strette. Gli attentati in Europa non sono necessariamente segno di potenza, potrebbero anche essere un segno di disperazione. Anche l’attentato a Orlando se è stato mosso dall’Isis è stato fatto per estrema difesa, perché sono alle strette sul campo medio-orientale. Non vedo in questi attentati, per quanto terribili siano, una prova di forza.
Mai tanta violenza come adesso, dicono alcuni libici, era meglio con Gheddafi.
Questo lo dicevano anche alcuni rispetto al regime fascista. È una visione un po’ conservatrice. Di solito sono persone che non hanno visione perspicace della situazione. In Libia indubbiamente è un caos. È chiaro che la gente non sa in quale direzione muoversi. La risposta però è andare avanti, non tornare indietro.
La partita della Libia è quindi ancora lunga…
Ne avremo ancora per molto. Però la Libia ha più possibilità di risoluzione del conflitto rispetto all’Iraq o alla Siria perché è una società molto più omogenea. È un conflitto atroce come gli altri però alla base ha contrasti meno difficili. Ma i tempi saranno lunghi.