Nei gesti del papa, l'invito a una vera pace
La tradizionale lavanda dei piedi del giovedì santo si è arricchita di un nuovo significato per la scelta di dodici profughi a rappresentare le religioni del mondo. Ancora una volta i gesti parlano più forte delle parole. Ma purtroppo non solo i gesti del papa, anche i gesti dei terroristi.
Un barista, una segretaria, un soldato, un commerciante, un pasticcere, tre studenti, un contadino. Sono fra i dodici richiedenti asilo ai quali papa Francesco ha lavato i piedi nel corso della tradizionale celebrazione del giovedì santo, che quest’anno è stata organizzata nella sede del Cara di Castelnuovo di Porto sulla via Tiberina, alle porte di Roma.
All’interno di questo centro di accoglienza vivono 900 immigrati circa, per la maggior parte musulmani. Ci sono però anche indù, cristiani cattolici, cristiani evangelici e cristiani copti. Proprio per questo nella scelta dei dodici stranieri che dovevano simboleggiare le figure degli apostoli si è pensato a uno o più rappresentanti di ogni religione. Una novità nella pastorale dell’accoglienza e della misericordia di papa Francesco. L’altra novità è che papa Francesco ha voluto stringere personalmente e molto affettuosamente la mano a ognuno dei 900 ospiti del centro.
Ancora una volta i gesti parlano più forte delle parole.
Ma purtroppo non solo i gesti del papa, anche i gesti dei terroristi. Se mettiamo infatti in relazione il gesto della lavanda dei piedi di papa Francesco con gli attentati di Bruxelles e più recentemente di Lahore, in Pakistan, non è difficile cogliere due messaggi contrapposti. Mentre il papa invita alla fiducia, a promuovere la pace e il dialogo fra i popoli e le religioni, i terroristi seminano odio, violenza e paura.
L’obiettivo dei terroristi che seminano morte in ogni angolo del mondo è duplice: minare alle fondamenta l’unità dei popoli e delle religioni e mettere in cattiva luce agli occhi degli occidentali il mondo musulmano, così da generare sempre nuove contraddizioni e conflitti che a loro volta alimentino la spirale del terrorismo e impediscano ai giovani musulmani di assimilare i valori del mondo occidentale.
A genitori ormai occidentalizzati che spesso non hanno trasmesso loro la conoscenza della religione i terroristi rispondono lanciando una sfida: noi siamo tornati alle origini, noi conosciamo il vero islam, non voi; voi siete vittime della corruzione occidentale. Noi sappiamo cosa è vero, cosa è giusto, non voi; voi non conoscete la vera religione. Si pongono cioè nel ruolo di maestri e non esitano a usare il terrore per diffondere il loro messaggio.
Di solito si tratta di giovani che si sono formati da sé all’interno di gruppi chiusi o sulla rete. Non è più la moschea il luogo della loro vita, della loro formazione. È internet, è l’Isis, lo stato islamico. Non l’islam religioso, ma l’islam politico, fondamentalista, integralista, violento. Un islam che a partire dalla rivoluzione komehinista del 1979 insegna a vedere in tutto ciò che è di matrice occidentale, a iniziare dalla democrazia, “immondizia” da cui allontanarsi per tornare alla purezza delle origini.
Non a caso il testo del califfato si chiama La promessa di Allah. Non a caso lo jihadismo dell’Isis è riuscito dove Al Qaeda ha fallito. Ha messo insieme gran parte dei movimenti fondamentalisti e ha risolto l’equazione più ardua: passare da una realtà di contestazione a una vera e propria istituzione. Ha creato uno stato a tutti gli effetti, per quanto non riconosciuto dalla comunità internazionale. Si è dotato di un’amministrazione, di un esercito e, diversamente da Al Qaeda, di un territorio, di una struttura sociale e politica.
Nel vuoto religioso prolifera l'Isis
L’Occidente non ha certo sottovalutato questo aspetto, ne ha però sottostimato altri, e in particolare il vuoto religioso, che ha aperto all’Isis un’inedita capacità di proselitismo e di radicalizzazione dei giovani musulmani. Stupisce quanto poco siano stati presi sul serio gli allarmi e le analisi degli esperti che da tempo richiamavano l’attenzione su questo aspetto, che viceversa i formatori degli aderenti all’Isis hanno tenuto ben presente.
E infatti delle due tipologie di giovani reclutati dall’Isis la prima, di cui facevano parte i primi jihadisti, era formata da giovani che avevano riscoperto la religione e si erano ri-islamizzati in prigione; la seconda, di cui fanno parte gli ultimi e più radicali jihadisti, è formata da giovani che a loro volta stanno riscoprendo la religione e si ri-islamizzano per conto proprio attraverso la rete e su internet.
Non è mai un solo fattore a generare il terrorismo, certo. Vi è la crisi sociale ed economica che emargina i giovani allontanandoli dal mondo del lavoro. Vi è la crisi delle ideologie, la fine delle utopie collettive, che strozza la speranza e oscura il senso della vita. Vi è soprattutto il vuoto religioso che si è aperto in Occidente a partire dall’insignificanza della religione.
Quel che serve oggi è dunque un’analisi più attenta e approfondita delle ambivalenze del secolarismo imperante.
Un lavoro lungo, ma decisivo. Ne va dei futuri equilibri dell’Europa e del mondo. Perché ormai l’islam è in movimento. Non è più statico, separato, lontano. È dentro alle nostre società, dentro ai nostri stati.
Un ruolo importante in questo lavoro possono svolgerlo le chiese cristiane, ma anche quanti nel mondo musulmano condividono e praticano il dialogo interreligioso. Che pertanto vanno aiutati, non emarginati, incriminati o condannati senza discernimento, come si tende a fare dopo ogni attentato.