Francesco e quella periferia oltre le sbarre
Al termine del giubileo dei carcerati, un gruppo di detenuti del Due palazzi di Padova è stato ricevuto, a sorpresa, dal papa a casa Santa Marta. Guardare con misericordia al mondo del carcere, come ha detto Francesco, non mette in discussione la giustizia della terra. La pena e la sua espiazione sono corretti, rispondono all’osservanza delle regole, ma la condanna della persona è diversa; soprattutto «il respiro della speranza non può essere soffocato da niente e da nessuno». Perché il primo a credere nell’uomo, comunque, è lo stesso Onnipotente; un atteggiamento solido e che non ha tregua, finché anche “l’ultima delle pecorelle smarrite non sarà riportata all’ovile” e alla docilità del gregge.
La misericordia, paziente ma irremovibile, attende sull’uscio della porta stretta, perché quella larga, costruita su pilastri effimeri, non le appartiene; non le interessano la solidarietà emotiva, l’accondiscendenza di facciata, l’adesione scontata. Aspetta, al varco.
Un po’ oltre ci sono i molti, i troppi, che continuiamo a chiamare ultimi, dando per scontato che i primi siano tali in base a una nostra personale classifica che il più delle volte non tiene conto di variabili, storie, volti, vicende; tra questi alcuni sono veramente tali, “ultimi”, almeno per noi. I carcerati, a esempio; quelli che la giustizia umana ha condannato, messo al bando, privandoli del bene più grande, la libertà.
Per questo, nell’anno della misericordia, la chiesa ha deciso che era bene invitare tutti, soprattutto chi crede, a valicare quell’uscio stretto
Un’operazione non semplice, né agevole, né tanto meno naturale; una scelta che esige di anteporre alcune convinzioni che vanno oltre la logica del ragionare e la parzialità dei sentimenti. Perché voler incontrare gli ultimi, essere misericordiosi, al di là di un fugace appuntamento o di una visita, significa vivere la speranza praticata, quella che non delude, perché è dono di Dio. Lui ha compassione dell’uomo che ha sbagliato, anzi trova proprio nell’errore, nella fragilità, il luogo privilegiato in cui manifestare tutta la sua potenza di redenzione del nostro essere limite e pochezza.
Tutto ciò, come ha detto papa Francesco, non mette in discussione la giustizia della terra, ma quella del cielo è veramente un’altra cosa. La pena e la sua espiazione sono corretti, rispondono all’osservanza delle regole, ma la condanna della persona è diversa; soprattutto «il respiro della speranza non può essere soffocato da niente e da nessuno». Perché il primo a credere nell’uomo, comunque, è lo stesso Onnipotente; un atteggiamento solido e che non ha tregua, finché anche “l’ultima delle pecorelle smarrite non sarà riportata all’ovile” e alla docilità del gregge.
La misericordia, quindi, come pratica della speranza; un’affermazione che può sembrare radicalmente teologale, ma che porta in sé anche conseguenze molto pratiche.
Perché se è vero che non si deve negare a nessuno l’opportunità del cambiamento e della redenzione, ciò comporta inevitabilmente che soprattutto chi vive espiando non sia sottratto a tale possibilità futura. Qui, entrano d’impeto i temi più forti che riguardano la vita e i luoghi del carcere: la pena, l’ergastolo, gli spazi, le possibilità di inventare e crescere in un’alternativa. Perché la speranza non negata è scelta culturale e di fede, ma è anche quotidianità di vita e di condizione.
Il punto di partenza, sempre secondo Francesco, non può che essere un bagno di umiltà e la sconfitta dell’ipocrisia
Quella che ci porta a pensare che i buoni e cattivi siano divisi da qualche sbarra e da un paio di lucchetti ben serrati. Non è così. «Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché loro e non io»: allora bisogna ricordarsi che siamo tutti peccatori e che le celle più diffuse, le nostre prigioni, sono quelle dell’individualismo e dell’autosufficienza, «quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove in schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone»; mali, questi sì, che ci impediscono di varcare la porta stretta della misericordia.
Francesco, qualche ora dopo la celebrazione del giubileo, ha voluto ospitare a casa sua un gruppo di carcerati (padovani).
Un segnale inequivocabile, un modello di accoglienza: la condivisione dell’eucaristia e quella della propria quotidianità, della quale la casa è emblema principe.
Tutto questo ha un forte significato di provocazione anche per la chiesa locale. Recentemente il vescovo Claudio ha affermato che bisogna guardare alla parrocchia del carcere di Padova (che gli operatori hanno voluto simbolicamente dedicare a san Disma , il ladrone “buono” che era con Gesù sulla croce) con un’attenzione superiore a tutte le altre, perché «luogo da cui può arrivare molta grazia».
È un lungo percorso che ci attende: intanto per un giorno, a Roma, una fetta di ultimi, una periferia, i carcerati, sono diventati i primi; ora non rimane che rovesciare il paradigma, anche qui, tra di noi, nei cuori e nelle comunità.