Dj Fabo: un'altra tragedia raccontata senza chiarezza
Dopo dj Fabo, cieco e tetraplegico, anche un pensionato veneto di 65 anni, malato di tumore, ha scelto di mettere fine alla sua vita in una clinica svizzera.
Una vicenda che interroga e chiede di non giudicare di fronte all’indicibile sofferenza che deve avere accompagnato Fabiano Antoniani e i suoi familiari e al dolore che ora abita questi ultimi. Tuttavia non si può ignorare la disinformazione che l’ha preceduta, accompagnata e che continua a fare di questa tragedia una battaglia politica e ideologica.
Anzitutto per il rispetto dovuto a una persona che ha fatto la scelta umanamente più drammatica e definitiva. Poi perché questo cortocircuito informativo confonde il dibattito sul testamento biologico con quello sull’eutanasia e sul suicidio assistito, senza offrire elementi di giudizio chiari e oggettivi all’opinione pubblica.
Molti infatti non sanno che se anche il disegno di legge “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari” attualmente all’esame della Camera fosse già in vigore, Antoniani non avrebbe comunque avuto diritto a usufruire del suicidio assistito. Abbiamo chiesto a Luciano Eusebi, docente di diritto penale all’università Cattolica di Milano e già membro della Commissione ministeriale sugli stati vegetativi e di minima coscienza, di aiutarci a fare chiarezza sulla questione.
«Pur con tutta la pietà e il rispetto per la memoria di questa persona – premette – occorre distinguere: un conto è il dibattito sui limiti e i criteri relativi all’intervento terapeutico in situazioni terminali che evolvono inesorabilmente verso la morte; altro quello sull’intervento diretto a dare la morte: eutanasia o collaborazione al suicidio assistito. Fabiano Antoniani si trovava in una condizione esistenziale certamente molto pesante, ma non era un malato terminale».
Per il giurista, «il messaggio diffuso talvolta dai mezzi di comunicazione, che è una scelta dignitosa abbandonare la vita quando vengono meno determinate condizioni, è molto pericoloso, e rischia inoltre di colpevolizzare chi invece accetti di affidarsi al sostegno di altri convincendolo che sarebbe meglio liberarli del proprio peso. Già oggi è patrimonio acquisito della bioetica medica che non si debbano compiere interventi sproporzionati, ma il ddl vuole fare un ulteriore passo, valorizzando la manifestazione personale di volontà rispetto al protrarsi delle terapie in determinate condizioni. Questo, se gestito correttamente, corrisponde a quanto affermato dalla chiesa cattolica fin dal 1980 in un documento della Congregazione per la dottrina della fede, ossia che in situazioni moralmente problematiche l’ultima parola spetta alla coscienza della persona, debitamente informata».
Il ddl attualmente in discussione «presenta comunque almeno due profili problematici». Anzitutto perché il malato «si troverebbe a formulare delle direttive vincolanti per il medico, ma il testo non prevede che queste volontà nascano all’interno della relazione medico-paziente in un contesto di dialogo con il medico stesso che dovrebbe verificare che non siano in atto pressioni sul malato, che questi non versi in uno stato di prostrazione psichica, che gli sia stata offerta la migliore medicina palliativa praticabile. Il medico viene ridotto a mero esecutore di volontà e non si chiede nulla sul piano della garanzia della stessa vera libertà di decisione del malato».
Ma c'è di più: la possibilità di chiedere l’interruzione di nutrizione e idratazione artificiali, «attualmente sospese solo in situazioni terminali, è una questione delicata, diversa dal suicidio assistito, ma che rischia di fare da ponte. Se il provvedimento fosse già in vigore – spiega Eusebi – Fabiano Antoniani non avrebbe avuto il diritto di chiedere la somministrazione di un farmaco letale, ma semplicemente la sospensione di questi sostegni vitali che non costituiscono interventi terapeutici.
Il passo culturale immediatamente successivo sarebbe però stato chiedersi se anziché lasciare morire di fame e di sete nell’arco di due settimane una persona, ancorché sedata, non sia più umano intervenire con un farmaco letale».
Una buona legislazione sul fine vita e sulla pianificazione delle terapie è possibile? «Sì purché il testo della normativa non apra a derive. Senza un punto di accordo preliminare su un’alleanza terapeutica condivisa si rischia il pericolo evocato da papa Francesco di rottamazione dei soggetti più fragili come materiali di scarto. L’interruzione d’idratazione e alimentazione artificiali anche a malati non terminali finisce per trasformarsi nella collaborazione diretta a un intento di porre termine alla vita. In questo modo la legge viene meno al suo spirito, la determinazione dei limiti dell’intervento terapeutico in una situazione di malattia degenerativa avanzata o terminale».
Il fatto
Fabiano Antoniani, dj Fabo, è morto alle 11.40 di domenica 26 febbraio nella clinica Dignitas di Forck, in Svizzera, presenti la mamma, la fidanzata e tre amici che hanno voluto accompagnarlo in questa sua scelta estrema. Il giovane, cieco e tetraplegico dal 2014, in seguito a un grave incidente stradale, ha ottenuto il suicidio assistito consentito nel paese elvetico e ha quindi morso un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale.
Dj Fabo non è il solo ad aver scelto il suicidio assistito in Svizzera. Il giorno dopo, a mezzogiorno, nella stessa struttura è morto un altro italiano: Gianni Trez, un pensionato veneziano di 65 anni affetto da una grave forma di tumore. Dopo la diagnosi e le cure, si era sottoposto anche a un’operazione che però non aveva dato l’esito sperato. «Potrei vivere ancora mesi, forse anni – ha spiegato in un’ultima intervista – ma non riesco a mangiare, a parlare, a dormire. Provo dolori lancinanti. È una sofferenza senza senso».
Secondo l’associazione italiana per il diritto a una morte dignitosa Exit di Torino, ci sarebbero altre cinque persone con residenza in Veneto ad aver preso contatti o avviato le pratiche per arrivare al suicidio assistito.