Profughi e accoglienza: «Possiamo fare di più. Ma insieme»
Un anno fa l'appello dei vicari foranei per l'accoglienza nelle parrocchie. In questi mesi un denso lavoro di incontri nel territorio, e diversi progetti di accoglienza. Il vicario episcopale don Marco Cagol: «Difficile fare di più da soli. Serve un grande patto condiviso tra tutti i soggetti del territorio».
«Profughi, richiedenti asilo, immigrati... sono parole che dicono – prima di tutto – di uomini, donne, bambini, anziani, giovani, in una parola “persone” e come tali “fratelli”. Come vicari foranei della chiesa di Padova ci siamo sentiti interpellati. Ci siamo riuniti, confrontati e interrogati, ascoltando anche rappresentanti delle istituzioni e amministratori del territorio. Non sottovalutiamo la fatica e il disagio, le paure e le insicurezze, la crisi economica che acuisce ed enfatizza le tensioni. A questi timori guardiamo con rispetto, attenzione e comprensione. Nelle paure o nella ricerca di soluzioni nessuno va lasciato solo. La paura però non può guidare le nostre scelte né può far venire meno l’impegno della comunità cristiana, che vede nell’altro un fratello e che fa dell’accoglienza il suo stile.
Per questo esprimiamo gratitudine alle comunità parrocchiali, ai volontari, alle istituzioni che in questi mesi si sono prodigate nel trovare soluzioni, per quanto faticose. Dalle loro esperienze vorremmo trarre esempio e testimonianza. Desideriamo altresì sostenere e incoraggiare le istituzioni e gli amministratori locali nel favorire una microaccoglienza diffusa, adeguata al territorio, sostenibile nei numeri, che attivi reti tra pubblico e privato. L’ulteriore appello di papa Francesco di questi giorni ci sostiene e ci sprona ad aprire le porte del cuore e delle comunità».
Dal messaggio dei vicari foranei a tutte le comunità della diocesi è passato un anno. Il tempo sufficiente per provare a stilare un bilancio: di quanto è stato fatto, di quel che resta da fare, dello scenario che si presenta oggi di fronte alle comunità parrocchiali. E quello che emerge dai numeri è un bilancio in chiaroscuro, segnato da esperienze positive – che in alcuni casi non è azzardato definire “profetiche” per come hanno saputo coinvolgere il territorio – ma anche da difficoltà e resistenze. Che non sono da nascondere, ma che invece è opportuno cercare di comprendere a fondo per coglierne le ragioni e provare a “rilanciare” quell'impegno che papa Francesco ha affidato alla chiesa italiana e che Padova ha voluto subito assumere con decisione.
«Se guardiamo alle cifre – sottolinea don Marco Cagol, vicario episcopale per i rapporti col territorio e le istituzioni – dobbiamo riconoscere che il lavoro fatto ha portato un frutto limitato, direi anzi numericamente insufficiente. Se però andiamo oltre a numeri dell'accoglienza in parrocchia, e guardiamo anche al lavoro di sensibilizzazione compiuto, direi che lo sforzo è stato ingente e di vera qualità».
Uno stimolo soprattutto culturale, insomma
«E già questo non è poco. Decine e decine di incontri organizzati nel territorio, con i consigli pastorali, in assemblea pubblica con i cittadini sono serviti innanzitutto a ricordare le ragioni che spingono centinaia di migliaia di persone a rischiare la vita per arrivare da noi. Se non prendiamo consapevolezza che loro sono le vittime di uno sviluppo non omogeneo, di una cooperazione internazionale fallimentare, delle tante guerre combattute con le armi che noi produciamo e vendiamo, di un continente come l'Africa dimenticato dal mondo, non possiamo nemmeno costruire i presupposti per un'accoglienza ragionevole. E poi c'è stato un grande impegno nel tessere relazioni, coinvolgendo i migranti nella vita parrocchiale in tanti modi, andando a conoscerli, proponendo attività, aprendo i nostri campi sportivi, i patronati, gli spazi della comunità cristiana».
Le persone ospitate in parrocchia, comunque, sono meno di quel che si poteva sperare. Quali sono le ragioni di questa scarsa risposta?
«Intanto dobbiamo tenere conto del fatto che non sono tantissime le parrocchie che dispongono di strutture adeguate per l'accoglienza, secondo i criteri definiti dalla legge. Sembra il contrario, ma questo è un primo dato di fatto. A cui si aggiungono però delle “fatiche” che non dobbiamo sottovalutare: le nostre comunità vivono anch'esse le contraddizioni, le paure, le incertezze, i dubbi che vediamo serpeggiare nella società veneta. E tanto maggiore diventa la fatica di aprirsi all'accoglienza se poi la realtà intorno – la gente, ma a volte perfino sindaci e amministrazioni comunali – si schiera contro ogni progetto. Le parrocchie oggi sono soggetti deboli, anche dal punto di vista della partecipazione, e più si sentono sole in questo sforzo più è difficile per loro andare avanti».
Dunque rischiamo di fermarci alle belle parole, senza poi passare ai fatti?
«Dobbiamo essere chiari. Oggi nessuna istituzione, nessuna realtà può affrontare un tema del genere da sola. Non lo possono fare i sindaci, non lo può fare la prefettura, non lo può fare il privato sociale e nemmeno la chiesa. Quando ti trovi da solo, al massimo gestisci l'emergenza ma non hai la forza di costruire veri progetti. A maggior ragione di fronte a un fenomeno che ha dimensioni epocali e che non saremo certo noi a poter fermare».
La diocesi ha sempre ribadito che la soluzione più ragionevole è quella delle micro accoglienze. Di fatto, però, si vanno moltiplicando nel territorio le “macro accoglienze”, con situazioni sempre più difficili da governare. Una politica sbagliata?
«Abbiamo sempre detto che le grandi accoglienze hanno delle criticità, che a volte magari vengono enfatizzate strumentalmente ma che esistono. Ospitare centinaia di persone in una ex caserma non è certo il modo migliore per realizzare progetti educativi né per facilitare un futuro inserimento, oltre a creare comprensibili tensioni nelle comunità. Lo vediamo a Bagnoli, ad Agna e a Cona, ad esempio. Dove si sono realizzate piccole accoglienze diffuse, dove gli ospiti sono persone con un nome e un volto e non semplici numeri, non c'è mai stato alcun problema e anzi si è innescato un meccanismo virtuoso con le comunità».
Dunque sbagliano il governo e la prefettura?
«Non vorrei che le nostre parole fossero equivocate. Se quello delle macro accoglienze è un metodo che presenta criticità, va anche detto che in mancanza di alternative ci rendiamo perfettamente conto che è l'unico perseguibile sul territorio nel momento in cui viene disposto l'invio di centinaia di persone, a cui pure un tetto sulla testa va trovato. Ecco perché noi continuiamo a ripetere che non è possibile dire semplicemente dei no. Ci vogliono anche i sì, c'è bisogno che il territorio crei le condizioni per un'accoglienza diversa, a tutela delle comunità locali e degli stessi migranti. Altrimenti, rimane una protesta sterile».
E come si creano le condizioni?
«Si creano mettendosi assieme. Da soli, lo ripeto, si può fare poco. Il nostro è un invito e una richiesta di aiuto, per fare ancora meglio la nostra parte. Noi vogliamo rinnovare l’appello per un grande patto territoriale per governare il fenomeno con criteri condivisi e sostenibili. È proprio impossibile pensare che ogni comune si faccia carico della sua parte di responsabilità, costruendo un sistema di accoglienza diffusa? E a chi non è d'accordo, diciamo: se non per convinzione profonda, se non per un criterio di giustizia, facciamolo per solidarietà nei confronti di chi le macro accoglienze già se le trova in casa. O almeno facciamolo per opportunismo. Sapendo, e la cronaca di questi giorni lo dimostra, che senza un criterio condiviso che funzioni anche da scudo per i territori, un domani potrebbe toccare a chiunque trovarsi un nuovo hub sotto casa».