Il sinodo in carcere: il coraggio di "mettersi a nudo" laddove nulla è scontato
Il percorso del gruppo sinodale nato in seno alla parrocchia del carcere. Il gruppo è guidato da Maddalena Tonello, che descrive questa esperienza particolare, e fra Stefano.
È il momento degli incontri nei gruppi. Una fase cruciale, per il sinodo dei giovani, anche per tutte quelle emozioni, paure e sorprese che inevitabilmente ogni incontro porta con sé. E tra gli oltre 700 gruppi che si incontrano nei patronati, nelle case o altrove, ce n’è uno del tutto particolare: quello del carcere.
Particolare non soltanto per la sede, ma anche perché incontrarsi vuol dire anche scoprirsi, ascoltarsi, fare un tratto di strada fianco a fianco. Non è mai una cosa semplice, ma qui lo è ancora meno.
Ciò che nel mondo di fuori viene dato per scontato, qui dentro non lo è. Non è facile parlare con un detenuto senza giudicarlo e non è facile per un recluso fidarsi di un altro, all’interno della realtà carceraria.
La "parrocchia" del carcere, guidata da don Marco Pozza, coinvolge una quindicina di volontari tra catechisti, diaconi, suore e due frati conventuali, che gestiscono il catechismo del sabato pomeriggio e la messa della domenica mattina. Il gruppo sinodale è guidato da fra Stefano e Maddalena Tonello, che fa volontariato in "parrocchia" e va in carcere tre o quattro volte la settimana, per accompagnare i detenuti lungo un percorso di fede o semplicemente per incontrarli ed ascoltarli. E così è nata l'idea del gruppo sinodale del carcere di cui fanno parte Jacopo, Eddy, Armand Davide, Carlo, Ashot, Nicola e Enjiell, tutti tra i 25 e i 40 anni.
Gli incontri si sono svolti di giovedì pomeriggio. «A differenza degli altri gruppi, che possono incontrarsi la sera e poi magari andare a mangiare un pizza – racconta Maddalena – noi ci riuniamo nella cappella del carcere, il pomeriggio. Un giorno Nicola ha pensato di portare un dolcetto per ognuno di noi, perché anche nel nostro gruppo ci fosse quell’aspetto conviviale che c’è negli altri. Può sembrare banale, ma ciò che fuori si dà per scontato, qui proprio non lo è».
Un altro esempio: durante un incontro si è parlato delle cose belle della vita e molti hanno citato la famiglia, che per qualcuno invece è soltanto fonte di rabbia e dolore. «Quello che mi ha stupito – prosegue Maddalena – è che fossero veri. I detenuti non si conoscono tutti tra loro e in carcere non è facile parlare di se stessi davanti agli altri. Vivono il vangelo come un messaggio semplice, non banale, diretto e attuale». In più, oltre il 60 per cento dei reclusi è musulmano e dichiarare la propria fede cattolica vuol dire avere il coraggio di esporsi in qualche caso a derisione e disprezzo. Eppure apprezzano il fatto di sentirsi anche loro, come parrocchia del carcere, parte della diocesi.
Un sentimento al quale ha dato slancio speciale la visita del vescovo Claudio Cipolla.
«Ha ascoltato la loro voce e ha dato voce anche a loro. Anche per me è stato un momento importante. Mi sono ritrovata a pregare con persone che non conoscevo, ma sapevo che avevano fatto del male. Ho imparato ad ascoltare le persone che sbagliano, senza giudicarle. Mettere a confronto il mio punto di vista e il loro è stato forte, perché ti rendi conto che da entrambe le parti ci sono dubbi, fragilità, paure. E quella porta della misericordia, aperta in carcere due anni fa, si è aperta anche per me».