I veneti oggi? Magari senza chiesa, ma non senza preghiera
I Veneti e la preghiera? «Un dato è incontestabile – spiega Monica Chilese, ricercatrice dell’Osservatorio socio-religioso triveneto – Oggi si prega più di quanto si frequenti: anche coloro che non vanno a messa regolarmente hanno una propria vita spirituale, magari gestita in maniera molto personale, al di fuori dai tradizionali formulari. Quello che è palese è che si prega, si cerca un rapporto con il trascendente, al di là del contesto istituzionale. La preghiera da questo punto di vista è il modo in cui una persona si esprime, senza mediazioni, in proprio».
Il tema della preghiera e in generale della “vita spirituale” va inquadrato nel contesto dei mutamenti più ampi che stanno caratterizzando il Nordest, anche rispetto alla religiosità.
I lavori dell’Osservatorio socio-religioso triveneto, guidato da Alessandro Castegnaro, in proposito sono molto chiari nelle conclusioni. È un tempo, il nostro, caratterizzato dall’accentuata evoluzione del profilo religioso, testimoniata dalla discontinuità che da questo punto di vista caratterizza la generazione in ingresso nella vita adulta.
Si sta andando verso identità religiose, confessionali e forme di spiritualità al plurale e dunque verso una cultura della libertà religiosa, intesa sia come libertà di, sia come libertà nella religione; verso un cattolicesimo “con meno chiesa”, che tuttavia nel Nordest tende ancora a pensarsi, almeno per ora, come un cattolicesimo “non senza chiesa”.
Il quadro che emerge dalle indagini non induce ancora a pensare a esiti predeterminati; vi sono al contrario ragioni per ritenere che gli spazi per una crescita spirituale e religiosa non siano chiusi, e che anzi qui siano persino più aperti che altrove e che le chiese abbiano energie e potenzialità migliori.
Dal punto di vista valoriale – sulla base di uno studio dell’Osservatorio per il convegno di Aquileia 2 (2012) – non vi sono ragioni vere per ritenere che ogni riferimento a criteri di valutazione dell’agire morale sia venuto meno, come qualche volta si sostiene.
Al contrario, dei criteri esistono e, pur con modificazioni nei modi di intenderli e di applicarli, si trasmettono attraverso le generazioni. Il presente e il futuro non è fatto solo di individualismo, un orientamento che certo esiste, ma di persone che cercano di definire un proprio percorso di vita e una propria identità, anche religiosa, cui è giusto guardare con rispetto e “simpatia”. Sotto questo profilo il Nordest non pare essere né migliore, né peggiore del paese nel suo insieme.
Dal punto di vista della religiosità l’incertezza del credere, pur estesa, non significa chiusura rispetto a una prospettiva trascendente. Il Veneto non è fatto di increduli e indifferenti, ma di persone “che vivono il contrasto”: tra credere e non, tra bisogno di appartenenza e desiderio di autonomia. Emergono inoltre nuovi spazi di spiritualità, diversi da quelli che hanno caratterizzato il passato, ma dinamici e interessanti.
Vi è un’ampia area di persone che pregano quotidianamente o almeno settimanalmente, anche se non praticano in modo assiduo (i non assidui che pregano ogni giorno sono il 17,8 per cento della popolazione, quelli che lo fanno ogni settimana sono il 9,3 per cento).
Se è vero che diminuiscono le persone che si definiscono religiose, sono in aumento quelle che si considerano spirituali anche se non religiose. Da una generazione all’altra questo è il gruppo che cresce di più: dal 4 per cento di chi ha più di 60 anni al 19 dei giovani. Vi è cioè una forte domanda spirituale che si manifesta in forme nuove e ha necessità di essere interpretata.
Le richieste incentrate sul bisogno di ricevere istruzioni vincolanti, in base a cui orientare la vita da un punto di vista etico, perdono di rilievo rispetto all’esigenza di condurre una vita realizzata, armoniosa, spiritualmente significativa, di non perdere e di trovare se stessi.
In ciò pesa anche il fatto che le persone sono molto gelose della propria autonomia – non a caso il rispetto dell’altro è professato come il valore più grande oggi – ed è a questa condizione che esse accettano di interloquire con una proposta di salvezza intesa in senso anche religioso.
Le chiese del Triveneto, inoltre, possono contare da un lato sul fatto che si fa più fatica qui nel Nordest a pensare alla propria vita spirituale in assenza di qualsiasi riferimento di chiesa, dall’altro possono fare leva su alcune importanti risorse interne, come un clero ancora numeroso, certamente affaticato ma radicato, capace di capire quello che la gente vive.
I parroci, ad esempio, sono noti alla grande maggioranza della popolazione: un quarto circa (25,4 per cento) conosce bene il proprio; più della metà ha rapporti verbali con lui (57), solo il 12,7 non sa chi sia; inoltre la parrocchia, per quanto meno centrale di un tempo, è ancora valutata positivamente da molti, anche quando vi appartengono poco.
Il giudizio sulla vivacità della parrocchia è infatti positivo: solo il 23,2 per cento tra chi è in grado di esprimere un parere perché la conosce la considera spenta e non viva. Meno lusinghiero quello sulla sua capacità di offrire stimoli per la vita morale e spirituale; quasi la metà ritiene che essa non offra mai o solo poche volte occasioni importanti in questo senso. Si potrebbe insomma dire che la parrocchia è più vitale dal punto di vista sociale-relazionale che da quello della capacità di interloquire con la domanda spirituale attuale.
Infine resta forte la partecipazione estesa a gruppi religiosi (soprattutto parrocchiali, di associazioni e di volontariato; meno incidenti da un punto di vista quantitativo sono nel Nordest i movimenti religiosi); tale aggregazione coinvolge una quota notevole della popolazione (12 per cento), superiore a quella italiana.
«Un dato è incontestabile – spiega Monica Chilese, ricercatrice dell’Osservatorio – Oggi si prega più di quanto si frequenti: anche coloro che non vanno a messa regolarmente hanno una propria vita spirituale, magari gestita in maniera molto personale, al di fuori dai tradizionali formulari. Si tratta di un’accentuazione della dimensione individualistica dell’approccio e della relazione con il dato religioso? Può darsi. Quello che è palese è che si prega, si cerca un rapporto con il trascendente, al di là del contesto istituzionale. La preghiera da questo punto di vista è il modo in cui una persona si esprime, senza mediazioni, in proprio».
Forse perché proprio l’istituzione, nella fattispecie la chiesa, non risponde al bisogno di spiritualità delle persone?
«Magari; anche se va notato che tutte le istituzioni oggi sono in crisi nel rapporto con gli individui. Nella preghiera tra l’altro si cerca spesso quello che viene definito un “chi sfumato”, un radicalmente altro talora indefinibile, che non sempre coincide con quello proposto proprio dalla chiesa».
Una preghiera all’insegna dell’autogestione?
«Abbastanza; tra l’altro in questo ambito si intersecano mondi ed esperienze diverse. Pensiamo a chi mette insieme un’esperienza spirituale che potremmo definire tradizionale, con altre provenienti da realtà culturali diverse, come ad esempio lo yoga. Non c’è un modo unico di accostarsi alla dimensione dell’al di là, di rispondere a quello che potremmo definire il limite creaturale. Ad esempio, dalle nostre indagini emerge in maniera forte la dimensione della preghiera come relazione, come riferimento al mondo dei defunti, ai cari che non ci sono più. Un elemento è abbastanza certo: il bisogno di andare oltre, di trascendenza, è ancora vivo e presente».
Un’esperienza che coinvolge categorie particolari?
«Non direi. Qualcuno potrebbe pensare che la preghiera appartenga soprattutto ai poveri, a quelli che hanno bisogno e devono quindi chiedere, ma non è affatto così: anche i ricchi pregano».
Oggi vi sono fenomeni, luoghi, che paiono coinvolgere in maniera diffusa nell’esperienza di preghiera, pensiamo a padre Pio, a Medjugorje. Quanto c’è di autentico in questi pellegrinaggi oranti?
«Non è facile identificare o distinguere le motivazioni che portano una persona, al di là della sua fede, a recarsi “in pellegrinaggio” o semplicemente a visitare determinati ambiti. Va osservato che comunque, oltre la spinta iniziale magari dettata dalla curiosità, spesso si tratta della partecipazione a eventi che toccano in profondità. La dimensione della religiosità popolare, l’essere immersi in una moltitudine di persone, fedeli o meno, che pregano è un’esperienza molto coinvolgente, i cui esiti sono insondabili. La prova di questo sta nel fatto che sono tanti quelli che ripetono le visite a questi luoghi, indipendentemente dal fatto che poi, a casa, frequentino o meno la chiesa».
E le preghiere tradizionali?
«A parte il ricorso a formule consolidate, come l’Ave Maria o il Padre nostro, altre modalità paiono decisamente in declino, almeno in alcune fasce di età o di popolazione. Pensiamo al rosario, tanto per citare un caso emblematico: per la popolazione anziana, magari particolarmente praticante, resta ancora una pratica significativa e di valore; per i giovani ho qualche perplessità».
Da tempo molti fedeli si sono avvicinati alla Parola di Dio, una volta patrimonio gelosamente custodito da presbiteri e studiosi. Questo ha cambiato il modo di pregare?
«Di sicuro la pratica diretta della Scrittura è più diffusa; vi sono gruppi di preghiera, ma anche altri contesti, dove l’abitudine a fare riferimento per pregare alla Parola, pensiamo ai salmi, si sta imponendo. Per quanto riguarda l’individuo, credo che si tratti ancora di un fenomeno abbastanza ridotto; se dovessimo verificare quanti laici, a esempio, seguono l’itinerario della liturgia delle ore, certo i risultati in termini quantitativi sarebbero abbastanza modesti. Di sicuro questa non è la posizione maggioritaria: come detto all’inizio, oggi si tende molto di più alla preghiera, alla relazione trascendente, personalizzata».